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Tra Bazoli e Geronzi né scontri né trattati

Niente “guerra per banche”. Per ora

Lo accettino amministratori delegati, politici e giornalisti. La partita è ferma.

di Enrico Cisnetto - 16 febbraio 2007

Chi spera, per interesse o voyeurismo, di veder (ancora) scorrere il sangue ai piani alti della finanza italiana, rimarrà deluso. Non ci sarà nessuna guerra: né per le Generali-Mediobanca, né per Telecom, né per un ulteriore giro di risiko bancario. Se ne facciano una ragione i “fuochisti” che vedo all’opera, siano essi amministratori delegati, banchieri d’affari, politici di terz’ordine o giornalisti. Per essere brutale: tra Nanni Bazoli e Cesare Geronzi non solo non avverrà nessuno scontro, ma probabilmente non ci sarà bisogno neppure di alcun genere di trattato.

Chi soffia sul fuoco, sottovaluta l’intelligenza e la saggezza di entrambi – probabilmente senza pari nell’establishment del dopo Cuccia – oltre ad ignorare la qualità e l’intensità del rapporto tra i due. Si è detto: Bazoli con SanIntesa ha creato non solo la più grande banca italiana, ma un polo di potere – politicamente targato Prodi – capace di dare l’assalto alle ultime roccaforti del capitalismo nostrano, dunque è inevitabile che entri in rotta di collisione con gli altri “poteri forti” e con i gruppi politici – presenti tanto nella maggioranza di governo come nel centro-destra – interessati a far fuori il presidente del Consiglio.

C’è del vero, ma c’è anche una dose non indifferente di caricaturalità in questo scenario. Prima di tutto perchè Bazoli è Bazoli da 25 anni suonati, cioè da quell’agosto 1982 in cui prese in mano il Banco Ambrosiano dopo il crack di Roberto Calvi, ed è rimasto tale anche quando la stella di Berlusconi ha cominciato a brillare nel firmamento della politica. Certo, non è un caso che l’operazione con il Sanpaolo sia avvenuta con il Professore a palazzo Chigi – che peraltro commise l’imperdonabile gaffe di annunciare la fusione, beatificandola, prima ancora che fosse ufficialmente deliberata – ma è pur vero che con il Cavaliere a quel posto l’ipotesi era Capitalia-Intesa, operazione che se fosse stato solo per i presidenti dei due istituti si sarebbe fatta (a conferma del loro feeling). Insomma, per essere chiari: tra Bazoli e Prodi, è più il primo ad essere funzionale al secondo, che viceversa. Questo, naturalmente, nulla toglie al fatto che sia legittimo che i competitor politici di Prodi abbiano timore del suo “peso reale” – peraltro inversamente proporzionale a quello di governo – e che di conseguenza tentino di arginarlo.

Tuttavia, il tema è un altro: Bazoli può muovere – e ha interesse a farlo – le sue pedine verso nuovi e più ambiziosi traguardi? La risposta non può che essere complessa così come è sofisticato l’uomo. Stando alle mosse di Romain Zaleski – che rivendica autonomia ma che certo non si può dire non abbia in Bazoli il suo nome tutelare – e guardando con quanta determinazione si sta svolgendo la partita Mittel-Hopa, si dovrebbe arguire che il presidente di SanIntesa si sta dando un gran daffare. Ma è pur vero che sulla strada delle Generali, obiettivo primo, ha trovato un intoppo decisivo, quello rappresentato dall’Antitrust: bloccato il piano Eurizon, costretti Antoine Bernheim e Giovanni Perissinotto ad uscire dai cda del superistituto ogni volta in cui si parla di assicurazioni, saltato ogni progetto di bancassurance. Insomma, paradossalmente, Intesa su Generali poteva muoversi meglio prima della fusione che oggi.

Inoltre, a Bazoli ha dato parecchio fastidio – lui così abituato a muoversi con assoluta discrezione – la sovraesposizione cui è stato costretto e sottoposto da questa fase di riassetto del potere finanziario, della quale è stato indubbiamente protagonista assoluto. Non sarebbe da lui insistere oltremodo, anche se va ricordato che quando si è trattato di dare il colpo di reni per chiudere a suo favore partite aperte – come dimenticare il caso Comit – non si è certo tirato indietro. Per questo, c’è da scommettere che l’avvocato bresciano se da un lato non lascerà nulla di intentato per portare a compimento l’operazione Hopa – anche a costo di pagare un conto salato, accontentando Unipol, e di dover pagare qualche prezzo a Siena per il “lavoro sporco” svolto – dall’altro, sarà il primo a voler trovare un accordo per Trieste. Quale? E’ presto per dirlo – non a caso Geronzi ha parlato di tre mesi di “fermi tutti”, misurando la distanza che ci separa dall’assemblea delle Generali – ma non c’è dubbio che sarà lo stesso Bernheim a sentire l’esigenza di accompagnare la sua riconferma alla presidenza con una qualche scelta che rafforzi il management della compagnia. E’ del tutto evidente che a fissare i termini con cui celebrare l’assemblea del 29 aprile delle Generali dovrà essere Mediobanca, che continua ad essere l’azionista di riferimento di Trieste. E a quel tavolo c’è un convitato di peso, l’Unicredito. Ma anche Alessandro Profumo – tra l’altro giustamente impegnato a guardare allo scacchiere europeo, con preferenza per la Francia (che si tratti di Société Générale?) – ha interesse a che i suoi avversari (nemici?) di SanIntesa non muovano su Trieste. Dunque, se Geronzi e Profumo si dovessero muovere d’intesa, come è probabile che sia, Bazoli avrebbe un motivo in più per sedersi al tavolo (virtuale, in certi casi basta guardarsi negli occhi) di un patto di non belligeranza che consenta a Generali di mantenersi italiana e rafforzarsi, e magari a Mediobanca di meglio definire i suoi assetti e le sue strategie. Evitando, nell’interesse del Paese, un nuovo capitolo di quell’assurda guerra che per una decina d’anni ha dilaniato l’establishment.

Pubblicato su Il Foglio di venerdì 16 febbraio

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