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Partiti allo sbando

Nel nulla

Partiti destrutturati e propagandistici e una grande coalizione che perde tempo. Risultato? Dei mostri democratici.

di Davide Giacalone - 17 giugno 2013

Con la crisi che stacca a morsi pezzi del nostro sistema produttivo, con il deperimento del commercio che svuota pezzi delle nostre città, allineando l’arredo urbano dei luoghi preziosi alle insegne dei consumi turistici più bassi, fa quasi impressione parlare di politica politicante. Eppure è rilevante interrogarsi su questa grande macchina che sembra macinare e produrre il nulla. Quale la sorte dei partiti e quella del governo di coalizione?

Guardate la desolante scena del Partito democratico: si stanno impiccando alla discussione se il candidato premier deve essere anche il candidato segretario. I democristiani svolsero il tema già all’epoca di Amintore Fanfani, perfezionando i manuali nell’era di Ciriaco De Mita. Nel Pd stanno morendo peggio che democristiani, nel senso che quelli almeno avevano ben chiaro che il presidente del Consiglio non è eletto, sicché non deve candidarsi a essere tale. C’è una sola ragione per dilaniarsi attorno a un tema così sciocco: essere divenuti un insieme di gruppi e correnti senza più una linea politica comune.

Dall’altra parte le cose non sono in vantaggio, ma non messi meglio: si attende di conoscere la grande novità, che, però, essendo stata pensata da Silvio Berlusconi, lo stesso che la annuncerà, segna l’esatto opposto, ovvero la grande continuità: l’unico motore politico del centro destra è lui. Il che è anche ragionevole, essendo il leader che ha segnato un’epoca (fateci caso, la sinistra chiama “ventennio berlusconiano” uno spazio temporale in cui lui ha vinto tre volte le elezioni e loro … tre). Quel che fa impressione non è la sua forza politica, ma l’assenza di soggetti che s’immaginino come innovatori e prosecutori in proprio.

I due grandi partiti non sono tali, nel senso che non hanno strutture di massa e articolazioni organizzative, ma solo immagini con le quali tentano di tenere compatta la massa dei voti (che si sfarina sempre di più). Se ci fosse stata una profonda riforma costituzionale si potrebbe sostenere che la destrutturazione dei partiti deriva da quella, siccome non ci fu credo che discenda dalla destrutturazione sociale. Che è fenomeno pericoloso, in tempi di crisi e con la spesa pubblica non utilizzabile per lenirne i dolori.

Da qui al governo. Nel mentre la sinistra lo negava, già la sera delle elezioni, sostenemmo che quello di coalizione era l’unico governo possibile. Così era e così è stato. Pier Luigi Bersani, negandolo, ci s’è rotto l’osso del collo. Ma i governi di grande coalizione hanno un senso se, sospendendo le ostilità propagandistiche, conducono gli antagonisti a condividere la responsabilità delle cose che è necessario fare. Qui sta succedendo l’opposto: ciascuno alza la voce per avere la propria bandiera conficcata sul groppone del Paese. E la tattica di Enrico Letta, consistente nel rinviare e rimandare, può essere valutata quale astuzia d’antica scuola scudocrociata, ma non tiene conto che il tempo è diventato un costo insostenibile. Mica siamo all’era di Mariano Rumor! Ci si può anche sollazzare a mettere 44 costituzionalisti in fila per due con il resto di uno, ma nel mentre ponderano l’Italia perde lo zecchino (neanche d’oro).

Ora sommate le due cose: partiti destrutturati e propagandistici + grande coalizione che perde tempo. Il risultato fa paura, perché l’impoverimento del ceto medio, o anche solo la paura dell’impoverimento, genera mostri democratici. Ai vertici della politica c’è troppa gente che non ha mai lavorato, che non ha mai guadagnato e che considera il fisco come la mera differenza fra i soldi che lo Stato ha destinato al loro benessere e quelli che effettivamente incassano. Continuino così e si ricorderanno Grillo come un raffinato dicitore, capace di tradurre la rabbia in commedia.

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