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La regola del male minore non serve a nulla

Mettiamoci d’accordo

Per effettuare riforme strutturali valide bisogna “pensionare” il vecchio bipolarismo

di Enrico Cisnetto - 27 luglio 2007

Mettiamoci d’accordo. Se nel giudicare l’accordo sulle pensioni, e più in generale l’approccio alla riforma del welfare, dobbiamo assumere come parametro il fatto che poteva andare peggio, o addirittura molto peggio, allora si assuma il principio del male minore come regola di governo di questo Paese e non se ne parli più. E’ come se uno avesse un incidente di macchina e scegliesse di valutare l’incidente una fortuna perchè non è morto, anziché una disgrazia perchè avrebbe potuto evitarlo. Chi s’accontenta, gode. Certo, la trasformazione dello “scalone” in uno scalino più una doppia quota (età anagrafica sommata all’anzianità di lavoro) è meglio che l’abolizione tout court del passaggio da 57 a 60 anni dell’età pensionabile, costa 10 miliardi in un decennio anziché 65, consente di raggiungere gli stessi risultati che si prefiggeva la Maroni con un anno di ritardo, rinvia la revisione dei coefficienti di altri tre anni (due li aveva già concessi Berlusconi) ma la rende non più trattabile (salvo che a qualcuno non venga in mente in parlamento di far saltare lo specifico codicillo).

Insomma, vista così, come scampato pericolo, quella che continuo a considerare una “controriforma” appare accettabile. Se Padoa-Schioppa, Bonino e un piccolo drappello di riformisti (sparuto, per la verità) non avessero tenuto duro, le cose sarebbero andate davvero molto peggio. E la reazione di una parte della maggioranza (Diliberto in particolare) e del sindacato (Fiom) a questa mediazione è lì a testimoniarlo. Sintesi mirabile di Enrico Letta (quarantenne): “sulle pensioni potevamo fare di più, ma abbiamo trovato un equilibrio che rivendico”. D’altra parte, a pensarci bene, anche il centro-destra nel 2004 chiese di applicare il medesimo principio alla Maroni: piuttosto che niente, accontentatevi di questa riformetta. Anche se la sua applicazione è differita, se la revisione dei coefficienti è rinviata, se il traguardo dei 60 anni è minimo, se la questione dei lavori usuranti è rinviata ai posteri. Sarebbe bastato che i tre anni di aumento dell’età pensionabile fossero scaglionati tra il 2005 e il 2007, ed ecco che oggi parleremmo d’altro.

Il fatto è, però, che l’Italia non si può più permettere di accontentarsi del “meno peggio”. Basterebbe dare un’occhiata alla classifica europea della previdenza per vedere come in genere l’età per lasciare il lavoro sia fissata a 65 anni, e che le eccezioni sono tutte verso l’alto salvo l’Italia, unica a permettere di andare in pensione con meno di 60 anni. Oppure basterebbe leggere le stime fornite dal Fondo Monetario, in cui si vede come l’economia mondiale aumenta le sue potenzialità arrivando ad un’ipotesi di crescita del pil del 5,2% sia per quest’anno che per il prossimo, che l’Europa contribuisce ancora troppo poco a questo sviluppo – oltre metà del quale lo fanno in tre: Cina, Russia e India – ma pur sempre cresce del 2,6% a livello paesi euro e del 3,1% si considera la Ue a 25, e che l’Italia è l’unico paese a rimanere sotto il tetto del 2% di incremento annuo della ricchezza.

Insomma, mentre il mondo viaggia ad una velocità mai così elevata, noi siamo lenti e maledettamente indietro: per questo il tirare a campare ci penalizza, e dobbiamo trovare la forza e il coraggio di rappresentare a noi stessi una realtà delle cose assai diversa da quella che fanno propria, anche inconsciamente, i riformisti che si accontentano. Magari cominciando col dire che non possono più fregiarsi di questo titolo coloro che si adattano alla logica del “meno peggio”. E siccome, come abbiamo visto con la Maroni, anche il centro-destra ha mostrato lo stesso difetto, sarà bene prenderne atto. Anzi, proprio la mancata riforma delle pensioni – che tale non si poteva chiamare la Maroni, nè tantomeno quella attuale – messa a confronto con la sua inderogabile necessità, dimostra che la formula politica della Grande Coalizione è ineluttabile. Perchè, dopo la Dini del 1995, non si è più riusciti a dare un assetto moderno e sostenibile al sistema previdenziale? Per due motivi.

Primo: perchè nei due poli ci sono forze “conservatrici”. Secondo: perchè ciascun polo teme che l’altro speculi su eventuali iniziative impopolari (o presunte tali, perchè io sono convinto che a lamentarsi di una vera riforma delle pensioni sarebbe una minoranza, magari vociante al contrario della maggioranza silente, degli italiani), con conseguente danno elettorale. E come si fa a superare questi due ostacoli? Unendo le forze moderate e riformiste in una grande alleanza, che lasci fuori dal governo del Paese la sinistra massimalista e la destra populista. La bellissima – ma, mi sia consentito, tardiva, e sbagliata nell’indicazione della bozza D’Alimonte come punto di partenza per la nuova legge elettorale – intervista di Giulio Tremonti al Corriere della Sera di mercoledì dimostra che quanto vado da tanto tempo predicando, solitariamente, comincia a farsi strada: il potere è debole – altrimenti non ragionerebbe in termini di “meno peggio” – e non ci possiamo più permettere governi col 51%, ricattati dentro e fuori dal perimetro della loro maggioranza. Ergo, occorre una Grande Coalizione, come del resto sta avvenendo un po’ in tutta Europa. Perchè non c’è solo la Merkel: non è forse un governo di “larghe intese” quello che Sarkozy – pur privo di problemi numerici in parlamento – ha messo dando la metà dei ministeri a socialisti? E così non è in Austria? E così non sarà presto in Olanda? Ormai è chiaro, se si vogliono riforme strutturali come quella delle pensioni, bisogna pensionare il vecchio bipolarismo.

Pubblicato sul il Foglio di vernerdì 27 luglio

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