Una serie di fallimenti
Metodo Ilva
Se è necessario sequestrare le azioni dei Riva e nazionalizzare, lo si faccia. Il vero pericolo è buttare una grande azienda e i posti di lavoro che genera per poi costringere Taranto e i suoi abitanti a vivere ugualmente nel degrado. E che il “metodo Ilva” possa diffondersi in tutto il Paese, chiudendolo per fine esercizio.di Enrico Cisnetto - 30 novembre 2012
Se in Italia va fermato il declino, a Taranto va fermato il tracollo. Non solo dell’Ilva e della città, ma dell’intero Paese, che rischia di sprofondare nel più clamoroso caso di fallimento collettivo di tutto ciò che rende un territorio una nazione: istituzioni, politica, magistratura, imprenditoria. Nella vicenda di Taranto, infatti, non si salva nessuno. E la posta in gioco è enorme, e va ben al di là dello specifico: in un colpo solo, la deindustrializzazione, il definitivo squilibrio dei rapporti tra il potere esecutivo e quello giudiziario (che, Costituzione alla mano, potere non dovrebbe essere), la reale capacità di tutelare l’ambiente e la salute di chi lavora.
Partiamo dal principio. L’Ilva è stata privatizzata. E – ve lo dice un genovese che con l’Italsider ha convissuto per anni – è stato un bene. Solo che a comprarla è stata una famiglia che non aveva né la dimensione, né le risorse, né la cultura imprenditoriale per reggere l’impatto di diventare improvvisamente, di fatto, il gruppo numero uno in Italia. Il mio ricordo del patron Emilio Riva, che ho conosciuto bene, è quella di un self made man che si vantava di tenere in tasca un libricino su cui, a matita, annotava il dare e l’avere di quella che chiamava “la baracca”. Quando gli parlavo della necessità di comunicare, quando cercavo di spiegargli i vantaggi della trasparenza, mi sorrideva scuotendo la testa: “non è roba per me, meglio stare schisci (acquattati)”. Dunque, privatizzazione opportuna, ma realizzata male. E proseguita peggio, nel senso che le istituzioni centrali e locali non hanno fissato con i Riva una road map delle cose che bisognava fare, tra cui bonificare il sito tarantino, mentre la politica si è divisa tra chi si è piegato (magari in cambio di qualche assunzione e spiccioli) e chi si opponeva all’esistenza stessa dell’acciaieria sulla base di una concezione ambientalista che equipara un fumo di ciminiera alla certificazione di un crimine. In questo contesto malato, l’Ilva ha continuato per anni a produrre lavoro e profitti, ma sempre in una logica di day by day, ma di soluzione strutturale dei problemi – e sono tanti – di una ragionevole convivenza tra quella “città nella città” e il territorio circostante.
Questo finché dei magistrati hanno deciso di potersi assumere la responsabilità di bloccare una produzione e una filiera industriale di valore nazionale con misure cautelari. Giustificando la propria azione con un “vi avevamo avvertiti, ora peggio per voi”. Fermo restando che i problemi andavano certamente affrontati prima, appena scoppiata la grana il governo avrebbe dovuto intervenire in maniera più decisa (e collegiale, perché fino a ieri non abbiamo visto palazzo Chigi spendersi) di quanto non sia stato pur con la buona volontà del ministro Clini. Perché bisognava capire che in gioco non c’era soltanto il destino dell’Ilva, ma dell’intera industria italiana, e che al di là dello specifico c’era l’immensa e irrisolta questione del potere non già della magistratura nel suo insieme, ma dei pubblici ministeri. Perché sia chiaro, a Taranto non c’è un tribunale che abbia accertato il danno – per esempio, non esiste documento ufficiale che sancisca che quelle emissioni sono fuori norma – ma una procura che, sulla base della presunzione del danno, ha bloccato la produzione e posto sotto sequestro i prodotti procurando così un danno certo a impresa, lavoratori e città, e ora, in assenza di decisioni, all’intera economia nazionale. Se ci sono reati e relativi colpevoli lo sapremo fra anni, nel frattempo la condanna (e la peggiore possibile) è già stata inflitta.
Adesso, non avendo sollevato prima il conflitto d’attribuzione, l’unica strada è quella – individuata ieri e che dovrebbe essere resa esecutiva oggi – di un decreto legge. Il problema, però, è che senza una sua immediata conversione, vista l’imminenza della fine della legislatura, c’è il rischio che possa non bastare. È vero che le prime reazioni politiche e sindacali sono confortanti, ma c’è da fidarsi della tenuta di chi già è stato messo sull’avviso (è proprio il caso di dirlo) con la solita giostra di registrazioni telefoniche?
Comunque, arrivo a dire che se per arrivare al risultato è necessario passare attraverso il sequestro delle azioni dell’Ilva detenute dai Riva e nazionalizzarla, ebbene lo si faccia. L’idea non mi fa paura. Mi spaventa molto di più quella che si butti una delle più grandi aziende del paese e le migliaia di posti di lavoro che genera per poi costringere Taranto e i suoi abitanti a vivere ugualmente in un ambiente degradato. E pure quella che se il “metodo Ilva” prende piede, l’Italia chiude per fine esercizio da Bolzano a Trapani.
Partiamo dal principio. L’Ilva è stata privatizzata. E – ve lo dice un genovese che con l’Italsider ha convissuto per anni – è stato un bene. Solo che a comprarla è stata una famiglia che non aveva né la dimensione, né le risorse, né la cultura imprenditoriale per reggere l’impatto di diventare improvvisamente, di fatto, il gruppo numero uno in Italia. Il mio ricordo del patron Emilio Riva, che ho conosciuto bene, è quella di un self made man che si vantava di tenere in tasca un libricino su cui, a matita, annotava il dare e l’avere di quella che chiamava “la baracca”. Quando gli parlavo della necessità di comunicare, quando cercavo di spiegargli i vantaggi della trasparenza, mi sorrideva scuotendo la testa: “non è roba per me, meglio stare schisci (acquattati)”. Dunque, privatizzazione opportuna, ma realizzata male. E proseguita peggio, nel senso che le istituzioni centrali e locali non hanno fissato con i Riva una road map delle cose che bisognava fare, tra cui bonificare il sito tarantino, mentre la politica si è divisa tra chi si è piegato (magari in cambio di qualche assunzione e spiccioli) e chi si opponeva all’esistenza stessa dell’acciaieria sulla base di una concezione ambientalista che equipara un fumo di ciminiera alla certificazione di un crimine. In questo contesto malato, l’Ilva ha continuato per anni a produrre lavoro e profitti, ma sempre in una logica di day by day, ma di soluzione strutturale dei problemi – e sono tanti – di una ragionevole convivenza tra quella “città nella città” e il territorio circostante.
Questo finché dei magistrati hanno deciso di potersi assumere la responsabilità di bloccare una produzione e una filiera industriale di valore nazionale con misure cautelari. Giustificando la propria azione con un “vi avevamo avvertiti, ora peggio per voi”. Fermo restando che i problemi andavano certamente affrontati prima, appena scoppiata la grana il governo avrebbe dovuto intervenire in maniera più decisa (e collegiale, perché fino a ieri non abbiamo visto palazzo Chigi spendersi) di quanto non sia stato pur con la buona volontà del ministro Clini. Perché bisognava capire che in gioco non c’era soltanto il destino dell’Ilva, ma dell’intera industria italiana, e che al di là dello specifico c’era l’immensa e irrisolta questione del potere non già della magistratura nel suo insieme, ma dei pubblici ministeri. Perché sia chiaro, a Taranto non c’è un tribunale che abbia accertato il danno – per esempio, non esiste documento ufficiale che sancisca che quelle emissioni sono fuori norma – ma una procura che, sulla base della presunzione del danno, ha bloccato la produzione e posto sotto sequestro i prodotti procurando così un danno certo a impresa, lavoratori e città, e ora, in assenza di decisioni, all’intera economia nazionale. Se ci sono reati e relativi colpevoli lo sapremo fra anni, nel frattempo la condanna (e la peggiore possibile) è già stata inflitta.
Adesso, non avendo sollevato prima il conflitto d’attribuzione, l’unica strada è quella – individuata ieri e che dovrebbe essere resa esecutiva oggi – di un decreto legge. Il problema, però, è che senza una sua immediata conversione, vista l’imminenza della fine della legislatura, c’è il rischio che possa non bastare. È vero che le prime reazioni politiche e sindacali sono confortanti, ma c’è da fidarsi della tenuta di chi già è stato messo sull’avviso (è proprio il caso di dirlo) con la solita giostra di registrazioni telefoniche?
Comunque, arrivo a dire che se per arrivare al risultato è necessario passare attraverso il sequestro delle azioni dell’Ilva detenute dai Riva e nazionalizzarla, ebbene lo si faccia. L’idea non mi fa paura. Mi spaventa molto di più quella che si butti una delle più grandi aziende del paese e le migliaia di posti di lavoro che genera per poi costringere Taranto e i suoi abitanti a vivere ugualmente in un ambiente degradato. E pure quella che se il “metodo Ilva” prende piede, l’Italia chiude per fine esercizio da Bolzano a Trapani.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.