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Il Paese necessita di uscire dal declino

Meglio rimboccarsi subito le maniche

Caro Giulio Tremonti è il momento di fare scelte coraggiose

di Enrico Cisnetto - 12 maggio 2008

Primo weekend da ministro per Giulio Tremonti. Ma, consiglio non richiesto, è bene che non si riposi troppo. In attesa che il Governo incassi la fiducia, approfitti, signor Ministro, di questa prima pausa per riflettere, perché la situazione della nostra economia è seria e – a differenza di quel che diceva Flaiano – anche grave. La settimana scorsa sono arrivati i dati sui consumi, o meglio sul crollo dei consumi, degli italiani. I dati di Confcommercio mostrano infatti quello che in molti temevano, e cioè che la frenata è arrivata. Redditi e stipendi insufficienti non sono più in grado di sostenere la domanda, e così nel mese di marzo si è registrata la più grave crisi dal 2005 ad oggi, con una contrazione anno su anno dell’1,7%, che colpisce particolarmente l’acquisto di beni (-3,4%) e configura un vero trend di stagnazione. Un fulmine a ciel sereno? Neanche per sogno: stia a sentire cosa dicono gli altri indicatori: i dati sulle esportazioni dei primi due mesi del 2008 segnano una crescita verso i paesi Ue dimezzata rispetto allo scorso anno (6,7% contro il 15,3% dello stesso periodo 2007). A conferma di un trend poco confortante: la nostra quota parte mondiale è scesa dal 4,7% del 1996 al 3,4% del 2006, passando dal sesto all’ottavo posto nella graduatoria internazionale.

E il recupero nel 2007 ci ha portato solo al 3,6%. Serve altro? C’è il dato sulla mortalità delle imprese, il peggiore dal 2000: nel terzo trimestre 2007 ben l’1,12% degli imprenditori italiani hanno chiuso i battenti. Insomma, i famosi nodi stanno venendo al pettine, e proprio nel momento in cui la congiuntura internazionale sta volgendo al sereno – non lo dico solo io, lo dicono “nasi”più fini come quello di Warren Buffett, del premio nobel Gary Becker, del segretario del tesoro Usa Harry Paulson, secondo i quali la fase più purulenta della crisi del subprime è ormai alle spalle – l’Italia ancora una volta fa da variabile indipendente. Del resto era già successo nel post-11 Settembre: dal 2001 al 2005 gli Usa non erano entrati in recessione ma anzi la locomotiva americana aveva continuato a correre, incurante dei profeti di sventura. Anche in quegli anni c’era un governo Berlusconi e Lei, signor Ministro, sedeva al posto più alto di via Venti Settembre. Allora si utilizzò la crisi del dopo 11 settembre per giustificare l’andamento stagnante della nostra economia. Senza accorgersi appunto che di recessione negli Usa non vi era traccia (l’unico rallentamento semmai vi fu prima dell’attacco alle due torri, non dopo).

Adesso, che la “nuttata” del subprime sembra passata, e che la crisi finanziaria non si è trasmessa all’economia reale, come da me detto più volte, come la mettiamo? Perché lo specifico italiano – Lei lo sa, e mi dicono che ne faccia cenno anche in privato – si chiama declino. Cioè il risultato di decenni di non-decisioni che hanno portato ad un accumulo di ritardi terrificanti. Non ci sono solo i cumuli di immondizia napoletana, ci sono questi cumuli di nodi accatastati che sono ancora più duri da sciogliere. Il nostro pil da dieci anni cresce un terzo di meno di quello di Eurolandia (mediamente tra il 1997 e il 2006 siamo cresciuti dell’1,4% all’anno, contro il 2,2%). Nel decennio, il differenziale accumulato con l’area euro nella creazione di ricchezza è stato di 8 punti, che diventano addirittura 18 rispetto agli Stati Uniti, visto che nel medesimo periodo la loro economia è cresciuta ad un ritmo del 3,2% all’anno, ben 2,3 volte superiore a quello italiano. Insomma, siamo di fronte a un trend di lungo periodo, ad una crisi che viene da lontano: poca crescita, bassa produttività, salari in coda a tutte le classifiche e che non reggono alla prova del potere d’acquisto.

Tutte deficienze che vanno sanate, con operazioni coraggiose, e dunque impopolari, tipo una drastica riduzione della spesa pubblica, che la situazione richiede. Nel frattempo non ci sono più foglie di fico: non siamo a un nuovo 1929, il terrorismo ha abbassato la testa (non diciamolo troppo forte, per scaramanzia); la Sua maggioranza è la più solida del dopoguerra. Non ci sarà nemmeno un’estate calda sindacale: la scelta di Cgil-Cisl-Uil di presentarsi ai suoi nuovi interlocutori, la Confindustria di Marcegaglia e il Berlusconi IV, con una proposta di cambiamento del modello contrattuale, e la stessa uscita di scena soft del “nemico” Montezemolo, futuro super-ambasciatore del made in Italy, aprono inaspettati spazi di concertazione e spazzano via l’idea dello scontro sociale.

Dunque, signor Ministro, questa volta non si vede veramente con chi ce la si possa prendere. Forse gli sceicchi, visto che il petrolio a 125 dollari al barile pesa su di noi più che su gli altri paesi soprattutto a livello di inflazione, anche se la gran parte delle colpe di essere il paese europeo più dipendente dall’estero (90% di energia importata) riguardano tutta la classe dirigente nazionale e cominciano vent’anni fa, col famigerato referendum sul nucleare.

Insomma, non ce la possiamo prendere proprio con nessuno. Rimangono forse solo i cinesi. Ma direi che è meglio lasciar perdere. Sarebbe tempo sprecato, anche perché Pechino, mentre noi straparliamo di fiaccola olimpica e di rispetto dei diritti umani in Tibet, ha bellamente abbandonato il suo ruolo di “paese emergente” per darsi a produzioni ad alto contenuto di conoscenza. Se sono i produttori di t-shirt a basso costo che ci fanno tanta paura, allora possiamo stare tranquilli, dato che ormai la Cina ci ha battuto anche come percentuale di pil destinato a ricerca e sviluppo. Questa volta non ci sono nemici e non ci sono scuse. Meglio rimboccarsi le maniche e iniziare a lavorare, perché sul Suo operato e su quello del Governo non farà sconti nessuno. Buon lavoro, caro Ministro.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.