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Oggi finalmente il decreto firmato da Ciampi

Mario Draghi alla guida di Bankitalia

Il migliore per il dopo-Fazio: coniuga liberismo e nazionalismo e ricostruirà l’establishment

di Enrico Cisnetto - 29 dicembre 2005

E’ ufficiale: Mario Draghi sarà il successore di Antonio Fazio nella carica di Governatore della Banca d’Italia. Dopo la visita di Berlusconi a Ciampi, giustamente tenuta riservata, ieri sera si era già consolidata l’idea che gli altri nomi rimasti in ballo fossero stati “bruciati” – il facente funzioni Desario, che non spiaceva al premier, il direttore generale del Tesoro Grilli, sponsorizzato dal ministro Tremonti, l’ex rappresentante italiano nella Bce, Padoa Schioppa, cui va l’apprezzamento del Capo dello Stato, e persino l’outsider Amato, che piaceva un po’ a tutti – e che alla fine Draghi l’aveva spuntata. Anche rispetto alla freddezza del ministro dell’Economia e ai dubbi del Cavaliere, fino a ieri i maggiori deterrenti alla scelta di Draghi. Un rapido giro di telefonate a qualche ministro ha poi consolidato l’impressione che sia stato il colloquio al Quirinale, ieri pomeriggio, a sbloccare una vicenda che ha rischiato più volte di finire sul binario dei tempi lunghi. Le perplessità di Berlusconi, attento a chi lo metteva in guardia alla presunta inclinazione filo-Prodi di Draghi, e privo di un suo vero candidato – a lui sarebbe piaciuto Antonio Martino, ma ha capito che sul nome del ministro della Difesa non avrebbe coagulato il consenso necessario – hanno fatto temere che l’attesa per la controfirma del Presidente della Repubblica della nuova legge sul risparmio (in cui sono contenute le novità circa i criteri di nomina e soprattutto di permanenza a palazzo Koch del Governatore) e la successiva pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale fosse in realtà solo una scusa del governo per prendere tempo. Non è un caso, infatti, che Ciampi abbia provveduto agli adempimenti nella mattinata di ieri, in modo da poter insistere per una decisione immediata nell’incontro con il premier e Gianni Letta, cui in precedenza era spettato il compito di sollecitare Desario a convocare il Consiglio superiore della banca centrale. Poi lo stesso Berlusconi ha capito che la strada di una nomina, magari a tempo, di Desario come pure il colpo di genio di avanzare il nome di un uomo del centro-sinistra come Amato per spiazzare gli avversari politici, non avrebbe portato da nessuna parte, e ha scelto di fare in fretta.

E oggi, con il decreto di nomina redatto dal Consiglio dei Ministri e controfirmato da Ciampi, Draghi è finalmente giunto alla guida della Banca d’Italia. L’uomo giusto al posto giusto, al momento giusto. Non suoni retorico il giudizio, ma nessuno più dell’ex direttore generale del Tesoro avrebbe le caratteristiche adatte a sostituire Fazio, in una condizione doppiamente drammatica come quella che, da un lato, vede una caduta verticale di immagine e credibilità della nostra banca centrale e, dall’altro, registra la crisi più acuta del sistema bancario italiano, esposto come mai prima al pericolo di una colonizzazione straniera. Già, è proprio per difendere quanto più è possibile – sempre meno, purtroppo – della famosa “italianità” delle banche, che Draghi è l’uomo giusto. So che si tratta di un’affermazione che suonerà doppiamente blasfema: alle orecchie dei liberisti tutti d’un pezzo, che in nome della superiorità ideologica del mercato chiedono a Bankitalia di non frapporre alcun ostacolo all’ingresso di capitali esteri negli istituti di credito nazionali, ma anche a coloro che, all’opposto, ritengono che la difesa dell’italianità vada realizzata a qualunque costo, senza badare al rispetto delle regole e senza guardare troppo per il sottile nello scegliere i baluardi nazionali, che si chiamino anche Fiorani o Consorte. Eppure, a ben guardare, tanto i primi quanto i secondi hanno avuto una cosa in comune, dopo essersi divisi tra guelfi e ghibellini intorno a Fazio: il giudizio negativo sulla candidatura di Draghi. I liberisti non lo considerano uno di loro, ma solo un liberale con una visione pragmatica delle cose. I nazionalisti a oltranza lo giudicano un banchiere d’affari che metterà all’asta il sitema creditizio, svendendolo al soldo straniero. In realtà Draghi ha dalla sua la conoscenza dei complessi meccanismi che regolano la vita dei mercati finanziari: mentre Fazio veniva dall’ufficio studi di Bankitalia ed era soprattutto un esperto di politica monetaria, l’ormai ex-vicepresidente per l’Europa di Goldman Sachs conosce il business e le sue malizie, per averlo vissuto dal di dentro. Questo, ragionevolmente, gli consentirà due cose. Primo: evitare ingenuità nel gestire i rapporti con i banchieri. Insomma, a Draghi non sarà difficile intercettare un bilancio falso o un’operazione, magari internazionale, sospetta, e non è cosa da poco. Secondo: usare il giusto mix nel dosare gli elementi di “protezionismo”, a difesa degli interessi nazionali, e quelli di mercato. Qui qualcuno dubita, ricordando la faccenda dei “British Invisibles”, il summit tra banchieri italiani e internazionali organizzato nel 1992 a bordo del Britannia, la nave della Regina inglese ormeggiata per l’occasione al largo di Civitavecchia. Un incontro nel quale, secondo alcune interpretazioni dietrologiche ma non troppo, approfittando della crisi politica di allora – o addirittura creandola ad arte – si sarebbe decisa la svendita dell’argenteria nazionale, le perle delle Partecipazioni Statali, a gruppi internazionali. A quella riunione Draghi c’era, e da lì gli è venuta la fama di “testa di ponte” o, peggio, “quinta colonna”, di circoli del denaro, massonici e non. Ora, che ci fosse e che continui ad esserci una pressione da parte di gruppi finanziari per comprarsi a poco un mercato ricco come quello italiano, è cosa che solo un cieco non vede. Ed è normale che i pochi che durante Tangentopoli e il crollo della Prima Repubblica hanno tenuto gli occhi aperti, abbiano maturato il sospetto su tutti i “passeggeri” del Britannia. Ma da qui a considerare Draghi un “anti-italiano” ce ne corre. Io stesso fui tra quelli che i sospetti li ebbero, ma ho avuto modo di verificare, maturando un dialogo con Draghi nel corso di questi anni, che non si può gettare addosso a chi gestì come professionista dello Stato le privatizzazioni degli anni Novanta la croce del loro fallimento “politico”. Certo, quella stagione non fece maturare né un capitalismo nuovo e più maturo, né un sistema economico più moderno e solido. Ma la responsabilità fu di quella Seconda Repubblica che oggi – forse anche sotto il peso della nuova stagione di scandali, è di ieri sera la notizia delle dimissioni di Consorte dal vertice di Unipol – fatica a sopravvivere, non di un dirigente, anche se il più alto in grado, del Tesoro. Ma proprio Draghi a palazzo Koch consentirà di riscrivere, in un momento difficilissimo come questo, la storia dell’economia italiana negli anni del declino.

Pubblicato sul Messaggero del 29 dicembre 2005, modificato in data odierna

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