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Venti di cambiamento?

Marcegaglia e Cavaliere

La riunione di Confindustria ricorda, drammaticamente, una analoga del 1992

di Enrico Cisnetto - 28 maggio 2010

Mentre Berlusconi con il suo laconico discorsetto lasciava di stucco i partecipanti all’assemblea di Confindustria, increduli nel trovarsi di fronte un uomo una volta combattivo e ora psicologicamente svuotato, mi è tornato alla mente un analogo appuntamento degli imprenditori italiani di molti anni fa. Era il 28 maggio del 1992 e l’assemblea segnava l’inizio della presidenza di Luigi Abete. Era in carica il penultimo governo della prima Repubblica, l’ultimo della lunga serie di quelli presieduti da Giulio Andreotti. Abete incentrò il suo programma sulla Confindustria come “soggetto politico” che chiedeva la fine del “consociativismo” e l’avvio della “era del maggioritario”. Nei due anni precedenti, sotto la presidenza di Sergio Pininfarina, molti, a cominciare da Cesare Romiti, avevano pesantemente attaccato la “politica”, intesa come ceto politico corrotto e inadeguato e come Stato inefficiente, costoso e vessatorio. Ricordo un famoso discorso dell’allora amministratore delegato della Fiat ai giovani confindustriali in cui si diceva “spazziamoli via questi politici e prendiamo noi uomini d’impresa in mano le redini del Paese”, di certo non essendo neppure sfiorato dall’idea che a far sue quelle parole avrebbe potuto essere Berlusconi. Il clima era pesante non diversamente da oggi: scandali, crisi politica, crollo della fiducia. L’attentato a Falcone e la conseguente elezione a presidente della Repubblica di Scalfaro segnarono la fine di quel governo e dal 28 giugno 1992 per dieci mesi il testimone passò al governo Amato, l’ultimo della Prima Repubblica, quello che si trovò ad affrontare la più grave crisi economica e monetaria dal dopoguerra con una manovra da 90 mila miliardi di lire (quella in cui ci fu il prelievo forzoso sui conti correnti). Il 28 aprile 1993 con la fine del governo quadripartito presieduto da Amato, soltanto 14 mesi dopo l’arresto di Mario Chiesa per tangenti (17 febbraio 1992), e dieci giorni dopo il referendum voluto da Segni e formalmente appoggiato dalla Confindustria di Abete per l’abrogazione del proporzionale, finiva una stagione della storia d’Italia e se ne apriva un’altra. Purtroppo ben peggiore, come qualcuno (pochissimi, tra cui il sottoscritto) aveva pronosticato e molti di più (ma ancora troppo pochi) oggi certificano.

Le somiglianze tra la situazione di 18 anni fa e quella odierna sono molte, e a pensarci fanno rabbrividire. Per semplificare: crisi della lira allora, crisi dell’euro oggi; Tangentopoli allora, “cricca” oggi; privilegi della casta e sentimento di anti-politica allora, stessa cosa oggi. Con tre aggravanti. Primo: la crisi della moneta unica è ben più grave di quella della lira, seppure possa apparire indiretta, perché con essa si chiude sopra la nostra testa quell’ombrello protettivo che finora è stata la maggiore garanzia per gli italiani. Secondo: il fenomeno della corruzione, rispetto al 1992, è peggiorato sia quantitativamente che qualitativamente, perché si è passati dal finanziamento irregolare della politica – peraltro con ampie attenuanti legate alla storia dell’Italia repubblicana terra di confine nella divisione Est–Ovest del mondo – al ben più grave arricchimento personale dei politici Terzo: quando gli errori sono sempre gli stessi, non solo la storia si ripete, ma aggrava la sua condanna.

Ecco perché ieri sono andato indietro con la memoria: perché con la plastica raffigurazione della crisi del Cavaliere – e con essa di quella del governo a sua guida e in definitiva dell’intera Seconda Repubblica – che è andata in scena all’Auditorium di Roma, ho assistito ad un film già visto. Quell’applauso prolungato alla Marcegaglia – l’unico davvero forte che abbia punteggiato la sua relazione – quando ha lanciato strali alla classe politica, quando con demagogia spicciola ha chiesto ai politici di essere i primi a fare sacrifici, la dice lunga sul clima che si vive, oggi come 18 anni fa, in quella borghesia del fare che è insieme la testa e la pancia del cosiddetto paese reale. Di fronte a tutto questo, passano in secondo piano i contenuti della relazione della presidente, il suo giusto riferimento alla congiunturalità della manovra correttiva appena varata dal governo – non a caso con fatica e patendo divisioni destinate a lasciare il segno ben più di quanto non si possa immaginare – e di conseguente l’altrettanto giusta, ma poco circostanziata, richiesta di passare subito alle riforme strutturali.

L’unica speranza è che la Confindustria, o almeno alcuni suoi esponenti più illuminati, questa volta sia il motore non di un “nuovo” peggiore del “vecchio”, come fu il passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, ma della nascita di una Terza Repubblica che finalmente traghetti l’Italia fuori dal terribile declino in cui è scivolata.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.