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Public Policy

Le parole di Napolitano non sono rassicuranti

Manca una politica di rilievo

L’Italia necessita di leadership politiche e di competenze tecniche senza confusioni di ruoli

di Enrico Cisnetto - 22 dicembre 2006

Non c’è la melensa retorica ciampiana, né tantomeno il rischio di un rigurgito di antipolitica, nelle parole usate da Giorgio Napolitano per sanzionare un sistema politico capace di produrre un mostro come la Finanziaria 2007. Il suo allarme per la tenuta delle istituzioni, per il Paese spaccato a metà, per la logica della contrapposizione applicata sempre e comunque, per un declino che non trova argine è stata fin dal suo insediamento la cifra che il Capo dello Stato ha voluto dare al settennato, non semplicemente esecrando e auspicando, ma assumendo il dato come un problema politico da risolvere. Già perchè di Napolitano si possono avere opinioni le più diverse, ma su una sua caratteristica occorre convenire: trattasi di un uomo politico.
Ed è proprio di personalità politiche di rilievo, oltre e prima ancora che di classe dirigente di qualità, che l’Italia difetta da ormai quasi una generazione. Nella fase di transizione tra la Prima e la Seconda Repubblica ci siamo decisi a bere quella pozione magica che si chiama “governo dei tecnici” – il desiderio della quale ardeva negli italiani da almeno un decennio prima – e che si è puntualmente rivelata una medicina palliativa, quando non un potente veleno. Pur non avendo nulla di “tecnocratico”, la stessa “discesa in campo” di Silvio Berlusconi – come anche la sua “permanenza in campo” – assomiglia al genere, non fosse altro per la reiterata negazione della politica (il “teatrino”). Ma lo stabilizzarsi del bipolarismo – purtroppo nella versione “bastarda” all’italiana – dovuto alla metamorfosi dello stesso Cavaliere da soggetto transitorio a dato permanente (fino a quando?) del sistema politico, e il fallimento dei tecnici prestati al governo – last but not least il ministro Tommaso Padoa-Schioppa – sembravano in qualche modo aver seppellito le illusioni dell’esistenza di una “scorciatoia”. Certo, Carlo Azeglio Ciampi ha fatto il ministro, il premier e il Presidente della Repubblica senza mai essere passato al vaglio elettorale. E infatti, a quel limite della sua parabola istituzionale è corrisposto una “fragilità” che gli ha sempre impedito di incidere politicamente, tanto che quando si ascriveranno le responsabilità della “maledetta” Seconda Repubblica, a lui ne toccherà una fetta non piccola.
Tuttavia, si sperava che il capitolo “riserve della Repubblica” si fosse definitivamente chiuso, mentre si potesse riaprire quello delle palestre – sempre più in disuso – formative di classe dirigente. Invece, le polemiche intorno al “mai dire mai” di Luca Montezemolo circa l’ipotesi di “entrare in politica” (espressione orrendamente qualunquista) – polemiche ridicole, visto che sono state alimentate da un ministro dell’Economia che nessuno ha mai votato – e il ripetersi a scadenze sempre più ravvicinate del “toto-Monti” (che fa l’ex commissario Ue, “scende in campo”?), hanno ridato fiato al tormentone sull’arrivo di un possibile “cavaliere bianco” per la malconcia politica italiana. Viceversa, le nomine con cui Mario Draghi ha definitivamente chiuso con il passato prossimo e remoto di Bankitalia fanno pensare che l’opera di “supplenza” svolta dalla banca centrale fin dagli anni Sessanta, con Guido Carli, delle scelte politiche e di governo, non sia più attuabile. Si dirà: bene, trattavasi di anomalia.
Peccato, però, che con l’attuazione del principio di Carl Schmit, secondo cui “è sovrano chi decide nello stato di necessità”, Bankitalia poteva permettersi – avendo le leve della politica monetaria, una dirigenza di grande levatura anche culturale, la vigilanza creditizia, la leadership della ricerca economica e un’indipendenza universalmente riconosciuta – di concorrere a far sì che questo Paese vivesse i suoi anni migliori. E peccato che di quel tipo di supplenza – una consulenza “affidabile”, non una surroga – l’Italia abbia ancora estremamente bisogno, certo più di prima. Ma se si tende a considerare la Bce come “altro” e non come la somma delle banche centrali nazionali, svilendo così Bankitalia, se si consente che il legislatore e le corti di giustizia le tolgano la discrezionalità tecnica (non arbitrarietà) in materia di vigilanza creditizia, se la si lascia trasformare in un authority qualsiasi, e se infine la si priva per regole assurde (e qualche scoria iconoclasta verso il passato) di uomini come Pierluigi Ciocca, che da intellettuale di razza ha contribuito a farne una “grande scuola”, allora è del tutto evidente che si sarà gettata la supplenza “buona” (quella di un’istituzione) a favore di quella cattiva (quella del potente, del riccastro, dell’accreditato mediaticamente) o, peggio, a favore del vuoto assoluto.
Allora, riassumendo, l’Italia per riscattarsi necessita di leadership politiche e di competenze tecniche. Le prime devono nascere e misurarsi nell’agone della lotta politica e delle idee, che ha come corollario il consenso popolare, paesaggio del tutto inadatto per signorini con la puzza sotto il naso e disabituati a rischiare. Le seconde, perchè tali rimangano e non ingenerino pericolose confusioni di ruoli, richiedono luoghi e istituzioni capaci di farsi rispettare per la loro forte credibilità e assoluta autonomia di giudizio e azione. Insomma, non abbiamo (più) bisogno di politici, magari travestiti da tecnici, costruiti nelle botteghe della comunicazione, ma di leader e di statisti che siano maturati in partiti fortemente identitari. La Politica con la maiuscola, per capirci.

Pubblicato sul Foglio del 22 dicembre 2006

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