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La legge di stabilità

Mancò il coraggio

L'esecutivo deve alzare il tasso di radicalità delle sue scelte economiche, ma non solo. Altrimenti è inutile

di Enrico Cisnetto - 18 ottobre 2013

Ci sono due modi per valutare la legge di stabilità, ex Finanziaria, ferma restando la prudenza che occorre sempre avere quando il testo è ancora oggetto di modifiche e aggiustamenti. Il primo è applicare una logica di breve, tutta tattica. Il secondo è usare una visione strategica. Se s’inforcano gli occhiali da presbite, la lettura è quella di una manovra che, come dice Letta, “da e non toglie”. E non è poca cosa, visto che veniamo da anni di aumenti della pressione fiscale per realizzare aggiustamenti imposti dall’Europa. Anzi, l’ultima limata per stare sotto il 3% nel rapporto tra il deficit e il pil il governo l’ha appena data con la “manovrina” varata per sistemare il deficit corrente, e non è stata una gran idea usare un po’ di patrimonio non per abbattere il fardello enorme del debito e cancellare gli interessi, come si dovrebbe fare e non si fa, ma per finanziare la spesa. E nel “dare”, la scelta di finanziare i cantieri è più che corretta: 6 miliardi per le infrastrutture sono pochi ma sono, mentre in tante altre circostanze i soldi si erano volatilizzati.

Ma se s’inforcano gli occhiali da miope, allora il giudizio cambia radicalmente: la manovra è priva di coraggio. La cifra che è mancata fin dal primo giorno a questo governo e che, riforma delle pensioni a parte, è mancato all’esecutivo guidato da Monti. Per coraggio s’intende non tanto una visione di lungo termine – il senso della necessità di chiudere la stagione dell’austerità fine a se stessa per avviare quella della ripresa e poi di una stabile crescita sopra il 2% annuo, c’è ed è significativo – quanto la capacità di imprimere forza alle scelte che si vogliono fare. C’è, per esempio, l’idea che occorre procedere ad un taglio del cuneo fiscale, ma non c’è il coraggio di dare a questo taglio una profondità tale da rendere la misura così radicale da rappresentare per l’economia una scossa anti-recessione. Cosa che si può fare solo liberando risorse attraverso la cessione di patrimonio (questa sì che sarebbe un’operazione virtuosa). C’è, per fare un altro esempio, la consapevolezza che il patto di stabilità interno soffoca i Comuni, ma non c’è il coraggio di prendere il toro per le corna e procedere ad una semplificazione del decentramento e una ridefinizione delle competenze che consenta agli enti locali di spendere di più e (soprattutto) meglio. È lo stesso principio per cui al suo esordio Letta aveva meritoriamente deciso di far pagare alle pubbliche amministrazioni i loro debiti nei confronti delle imprese, ma poi non ha avuto il coraggio di innescare il meccanismo, che Cdp gli offriva e suggeriva, di uso delle garanzie fideiussorie dello Stato – che l’Europa non conteggia nei calcoli sul deficit se non quando sono escusse – per azionare la leva bancaria e finanziaria. Leva che poteva consentire, e lo può tutt’ora, di accelerare il pagamento dei debiti, innescando un volano economico che la rateizzazione dei pagamenti stessi non crea.

Si è detto che si tratta di scarsa ambizione. Non credo. Penso che dalle parti di palazzo Chigi a scarseggiare sia il coraggio, non l’ambizione. E sono due cose molte diverse. Letta è prudente, non pigro o distaccato. E il nodo è, ancora una volta, politico. Il governo fin dal suo esordio ha ritenuto di non pregiudicare la sua esistenza, effettivamente appesa ad un filo, facendo scelte forti sulle quali obbligare la “strana maggioranza” ad assumersi la responsabilità di rompere se ne aveva il coraggio. Al contrario, ha imboccato la strada della mediazione preventiva, del prima mettiamoci d’accordo e poi variamo i provvedimenti, magari accompagnata da un po’ di furbizia sulle reali intenzioni del premier (vedi alcuni fraintendimenti, voluti, su Imu e Iva). Io ho criticato fin da subito questo indirizzo, ma ho pure riconosciuto che l’alta tensione intorno alle vicende personali di Berlusconi lo rendeva se non indispensabile, certo molto ragionevole. Ora, però, il quadro è un po’ cambiato. Dico un po’ perché non sono sicuro che la componente governativa del Pdl, le cosiddette colombe, siano pronte, disposte e capaci di andare fino in fondo nel distinguersi dai falchi e nell’andare così a costituire una maggioranza politica “meno strana” di quella rappresentata dall’incontro-scontro tra Pd e Pdl.

Ma proprio perché c’è questa incertezza che occorrerebbe una manovra finanziaria molto più coraggiosa. Infatti, se al governo serve, come io credo serva, che Alfano e Berlusconi prendano strade diverse – e attenzione, ho detto che sarebbe utile al governo, non al Pd, la cui esistenza è legata a quella del Pdl, tanto che si spaccherebbe immediatamente anch’esso se nel Pdl si consumasse la scissione – allora il governo deve alzare il suo tasso di radicalità delle sue scelte, in politica economica ma non solo, proprio per rendere maggiormente probabile che Berlusconi sia lasciato andare al suo destino. Viceversa, se il governo è timido, le due componenti dentro il Pdl tenderanno inevitabilmente a saldarsi. Dunque, nell’interesse del Paese e per egoismo del governo, giù con iniezioni di testosterone.

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