Verso un “patto per la competitività”
Manager incompresi
Perché Marchionne non ha nessuna intenzione di creare un nuovo patto sociale in Italiadi Enrico Cisnetto - 06 settembre 2010
Marchionne apre la strada ad un nuovo patto sociale, o addirittura ne ha già scritto i punti salienti con le sue mosse a Pomigliano e Melfi? Vedo che si tratta di un’ipotesi molto gettonata, ma francamente io qualche dubbio ce l’ho, e lo voglio esternare senza per questo iscrivermi (o farmi iscrivere d’ufficio) al partito “conservatore” della Fiom o a quello di chi vorrebbe salvare l’italianità della Fiat con soldi pubblici. Partiamo dai “meriti” di Marchionne.
Non mi sfugge, sia chiaro, la valenza anche simbolica di un grande manager che, invece di tirare a campare adeguandosi alle italiche abitudini, rompe tabù e infrange miti. Specie nel mercato del lavoro delle (purtroppo ormai poche) grandi imprese, molto più somigliante a quello della pubblica amministrazione che del “privato diffuso”, essere capaci di mettere in discussione e superare le vecchie logiche pansindacalistiche imposte dalla componente non riformista – ma, ahinoi, ormai maggioritaria – della Cgil, è cosa buona e giusta.
Nella fattispecie, poi, l’aver denunciato comportamenti lesivi sia dei legittimi interessi dell’azienda sia dei lavoratori che non intendevano scioperare, mi sembra cosa corretta – semmai non lo è stato un certo comportamento passivo tenuto per molto (troppo) tempo – e debbo dire che la sentenza con cui i giudici hanno imposto il reinserimento dei tre lavoratori di Melfi mi sembra sbagliata, sia nel merito che nelle conseguenze (ancorché sia dell’idea che le sentenze, giuste o sbagliate che ci sembrino, vadano rispettate).
Non è dunque il merito dell’azione di Marchionne, quando pone il tema dell’assenteismo a Pomigliano o della liceità di taluni comportamenti a Melfi, che lascia margini di discussione. E neppure il fatto che il capo della Fiat ponga il problema, sacrosantemente fondato, della produttività delle fabbriche italiane in relazione ai costi che le stesse produzioni avrebbero altrove. No, la questione sta sia nelle motivazioni reali che hanno spinto Marchionne a fare queste scelte, sia nelle conseguenze che da esse se ne dovrebbero trarre. Sul primo punto ho già scritto qui tutte le mie perplessità: sommando informazioni e impressioni, ho netta la sensazione che il manager col maglioncino abbia montato tutto questo non già per imporre un nuovo stile – vogliamo dire alla D’Amato quando attaccò sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – bensì per creare le condizioni per chiudere, totalmente e definitivamente, la presenza Fiat in Italia, anche in coincidenza con la fusione tra la casa di Torino e la Chrysler, che ridurrà la presenza nel capitale degli eredi Agnelli e finirà per far diventare americano il nuovo gruppo. Ho provato ad esternare questa preoccupazione al ministro Sacconi, nell’ambito di “Cortina InConTra”, e lui mi ha giustamente risposto, in nome di quell’antropologia positiva che è diventata il suo karma, che non vuole e non può neppure prendere in considerazione l’ipotesi che Marchionne “faccia il furbo”.
Nella sua posizione, è più che giusto: la Fiat ha creato la newco “Fabbrica Italiana” e ha preparato progetti di lungo termine per gli stabilimenti italiani, se il governo facesse lo scettico sarebbe un errore. Senza contare che si finirebbe per dare spago a chi contesta Marchionne per motivi ideologici. Ma chi fa il commentatore ha il dovere di esaminare tutte le ipotesi, e francamente quella che ho adombrato non mi sembra affetta da dietrologia spicciola.
Ma veniamo alla seconda questione, quella del nuovo “patto sociale”. Qui ci sono due diverse letture. Una, ripresa ieri anche da l’ex ministro Damiano, pensa ad un patto finalizzato a mantenere in Italia le produzioni automobilistiche per ragioni occupazionali. Anche a costo, come ha suggerito Mucchetti sul Corriere, di far entrare in Fiat-Chrysler qualche azionista di “sistema”. A parte l’osservazione che da quella sponda sono sempre venute tirate d’orecchio a chi parlava di “italianità”, ma qui dobbiamo intenderci: non ci sono le condizioni, né varrebbe la pena, di immaginare un “salvataggio” all’italiana della Fiat. Si dice: ma Obama ha fatto proprio questo. Vero.
Ma per il capitalismo italiano, a questo punto della sua parabola, lo spazio per interventi “difensivi” del genere non c’è più. E ammesso e non concesso che ci siano risorse, meglio spenderle per nuove iniziative in settori meno dipendenti dal costo del lavoro. La seconda interpretazione del “patto sociale” è invece più attinente alle relazioni industriali tra le parti. Ora che ci voglia un nuovo accordo non c’è dubbio, e che debba essere un “patto per la competitività” basato su maggiore flessibilità contrattuale (più aziendale e meno nazionale), altrettanto. Ma siamo proprio sicuri che sia dalla vicenda Fiat che debba prendere le mosse?
Non mi sfugge, sia chiaro, la valenza anche simbolica di un grande manager che, invece di tirare a campare adeguandosi alle italiche abitudini, rompe tabù e infrange miti. Specie nel mercato del lavoro delle (purtroppo ormai poche) grandi imprese, molto più somigliante a quello della pubblica amministrazione che del “privato diffuso”, essere capaci di mettere in discussione e superare le vecchie logiche pansindacalistiche imposte dalla componente non riformista – ma, ahinoi, ormai maggioritaria – della Cgil, è cosa buona e giusta.
Nella fattispecie, poi, l’aver denunciato comportamenti lesivi sia dei legittimi interessi dell’azienda sia dei lavoratori che non intendevano scioperare, mi sembra cosa corretta – semmai non lo è stato un certo comportamento passivo tenuto per molto (troppo) tempo – e debbo dire che la sentenza con cui i giudici hanno imposto il reinserimento dei tre lavoratori di Melfi mi sembra sbagliata, sia nel merito che nelle conseguenze (ancorché sia dell’idea che le sentenze, giuste o sbagliate che ci sembrino, vadano rispettate).
Non è dunque il merito dell’azione di Marchionne, quando pone il tema dell’assenteismo a Pomigliano o della liceità di taluni comportamenti a Melfi, che lascia margini di discussione. E neppure il fatto che il capo della Fiat ponga il problema, sacrosantemente fondato, della produttività delle fabbriche italiane in relazione ai costi che le stesse produzioni avrebbero altrove. No, la questione sta sia nelle motivazioni reali che hanno spinto Marchionne a fare queste scelte, sia nelle conseguenze che da esse se ne dovrebbero trarre. Sul primo punto ho già scritto qui tutte le mie perplessità: sommando informazioni e impressioni, ho netta la sensazione che il manager col maglioncino abbia montato tutto questo non già per imporre un nuovo stile – vogliamo dire alla D’Amato quando attaccò sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – bensì per creare le condizioni per chiudere, totalmente e definitivamente, la presenza Fiat in Italia, anche in coincidenza con la fusione tra la casa di Torino e la Chrysler, che ridurrà la presenza nel capitale degli eredi Agnelli e finirà per far diventare americano il nuovo gruppo. Ho provato ad esternare questa preoccupazione al ministro Sacconi, nell’ambito di “Cortina InConTra”, e lui mi ha giustamente risposto, in nome di quell’antropologia positiva che è diventata il suo karma, che non vuole e non può neppure prendere in considerazione l’ipotesi che Marchionne “faccia il furbo”.
Nella sua posizione, è più che giusto: la Fiat ha creato la newco “Fabbrica Italiana” e ha preparato progetti di lungo termine per gli stabilimenti italiani, se il governo facesse lo scettico sarebbe un errore. Senza contare che si finirebbe per dare spago a chi contesta Marchionne per motivi ideologici. Ma chi fa il commentatore ha il dovere di esaminare tutte le ipotesi, e francamente quella che ho adombrato non mi sembra affetta da dietrologia spicciola.
Ma veniamo alla seconda questione, quella del nuovo “patto sociale”. Qui ci sono due diverse letture. Una, ripresa ieri anche da l’ex ministro Damiano, pensa ad un patto finalizzato a mantenere in Italia le produzioni automobilistiche per ragioni occupazionali. Anche a costo, come ha suggerito Mucchetti sul Corriere, di far entrare in Fiat-Chrysler qualche azionista di “sistema”. A parte l’osservazione che da quella sponda sono sempre venute tirate d’orecchio a chi parlava di “italianità”, ma qui dobbiamo intenderci: non ci sono le condizioni, né varrebbe la pena, di immaginare un “salvataggio” all’italiana della Fiat. Si dice: ma Obama ha fatto proprio questo. Vero.
Ma per il capitalismo italiano, a questo punto della sua parabola, lo spazio per interventi “difensivi” del genere non c’è più. E ammesso e non concesso che ci siano risorse, meglio spenderle per nuove iniziative in settori meno dipendenti dal costo del lavoro. La seconda interpretazione del “patto sociale” è invece più attinente alle relazioni industriali tra le parti. Ora che ci voglia un nuovo accordo non c’è dubbio, e che debba essere un “patto per la competitività” basato su maggiore flessibilità contrattuale (più aziendale e meno nazionale), altrettanto. Ma siamo proprio sicuri che sia dalla vicenda Fiat che debba prendere le mosse?
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.