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Public Policy

L'editoriale di Terza Repubblica

Ma se Renzi non è più Renzi?

Dalla "rupture" alla nomenclatura di partito. Tutti i rischi che il Sindaco corre diventando Segretario Pd

09 settembre 2013

In attesa di vedere in quale dei due lati del tavolo da ping-pong – rottura o conciliazione – si fermerà l’impazzita pallina berlusconiana, con tutte le conseguenze sul governo e gli assetti politici, vale la pena ragionare sulla forza che improvvisamente ha preso la candidatura di Matteo Renzi alla segreteria del Pd. Perché questa clamorosa accelerazione? E ai fini della salvezza dell’Italia, è un bene o un male che il (ex?) “rottamatore” riesca nell’intento? E nel breve, il renzismo rampante che influenza esercita su Berlusconi e il Pdl, che devono decidersi se essere falchi o colombe?

Andiamo con ordine. Il sindaco di Firenze è diventato uno degli uomini politici più amati dagli italiani, o forse sarebbe meglio dire meno indigesti, non perché si è giocato la partita delle primarie del Pd contro Bersani, ma perché, pur con molti punti di fragilità e in presenza di diversi elementi di contraddizione, è apparso come quello che – per età, coraggio e capacità comunicative – avrebbe potuto rompere gli assetti di un sistema politico non più credibile. Il giudizio positivo era pre-politico, quasi antropologico. E trasversale rispetto ai due schieramenti dello sfibrato bipolarismo italico. Per questo il massimo di potenzialità, a nostro avviso, Renzi l’ha avuto prima della consultazione sul candidato premier del centro-sinistra, poi vinta da Bersani. Un consenso molto trasversale che, però, da quel momento è lentamente ma inesorabilmente sceso. E non perché abbia perso le primarie, ma perché vi ha partecipato. Agli italiani Renzi non interessa in quanto espressione del centro-sinistra, ma in quanto “rottamatore” della Seconda Repubblica. A quali italiani? A gran parte di coloro che hanno votato a destra, a una parte – probabilmente minoritaria, ma comunque significativa – di chi ha votato a sinistra, a tutti quelli che hanno votato il centro e una parte non trascurabile di chi si è astenuto o ha poi votato Grillo.

Insomma, potenzialmente Renzi poteva ricevere il voto della maggioranza degli italiani, ben più di quelli che nel 1994, nel 2001 e nel 2008 hanno premiato Berlusconi (a maggior ragione di quelli che nel 1996 e nel 2006 hanno portato Prodi a palazzo Chigi). Peccato, però, che il giovane Matteo abbia giocato un’altra partita. Invece di cogliere l’occasione del coinvolgimento di Vendola nelle primarie per uscire dal Pd e denunciare la deriva dei Democrats a sinistra, Renzi ha preferito andare avanti per la sua strada, perdendo l’occasione – e soprattutto, facendola perdere al Paese – di candidarsi alle elezioni del febbraio di quest’anno, non a caso rivelatesi inutili, come soggetto nuovo e antagonista dei due poli del consunto bipolarismo. No, Renzi ha scelto di stare dentro il Pd, e dopo aver perso le primarie ma forte di un risultato consistente ha replicato fino a essere ora a un passo dalla segreteria. Senza accorgersi, temiamo, di aver via via edulcorato quel tratto da uomo di “rupture” che era alla base del suo successo. Se lui avesse fatto quel passo, non ci sarebbe stato il ritorno del Cavaliere e la candidatura-non candidatura del senatore a vita Monti. Con la fine della Seconda Repubblica – che era già morta nel novembre 2011 quando Berlusconi cedette il passo al governo tecnico, ma che le elezioni senza vincitori hanno poi provveduto a seppellire definitivamente – ci sarebbe stata anche la fine del bipolarismo basato sull’assurdo schema berlusconismo-antiberlusconismo” che invece ancora oggi ammorba la nostra vita politica.

Insomma, una grande opportunità buttata alle ortiche, e che ha dato il segno di come la traiettoria politica di Renzi fosse cosa diversa dalla sua immagine mediatica. Tuttavia, a chi come noi ha a cuore il cambiamento strutturale del sistema politico e istituzionale, non è comunque mancata la speranza che il sindaco di Firenze avesse la lungimiranza strategica e trovasse il coraggio di approfittare dell’inciampo elettorale e post-elettorale di Bersani, della riconferma di Napolitano e della nascita del governo di grande coalizione per ridefinire la propria linea sulla base di quella identità forte di uomo di rottura dei giochi consolidati. Invece, ha definitivamente preferito giocare tutte le sue carte nella battaglia interna per il controllo del Pd – nella speranza, comprensibile ma non si sa quanto fondata, di poter arrivare a palazzo Chigi passando dalla segreteria del partito – finendo per entrare in un meccanismo per cui l’aumento delle sue chance è inversamente proporzionale al mantenimento della cifra “renzista” del suo profilo politico. Come ha notato Stefano Folli, il candidato Renzi assomiglia come una goccia d"acqua al Veltroni del 2007: indefinito sul piano programmatico e con un cartello elettorale non omogeneo, ma in grado di vincere per mancanza di avversari.

Dunque, se ce la farà a succedere ad Epifani, avrà avuto ragione lui? Sarebbe sciocco, da parte nostra, non considerare gli effetti comunque positivi che avrebbe l’arrivo alla segreteria del Pd di uno che declina la sinistra così: “il luogo della sinistra è la frontiera, non il museo; la parola della sinistra è curiosità, non nostalgia; il dna della sinistra è innovazione, non conservazione; lo stile della sinistra è il coraggio, non la paura”. Ma TerzaRepubblica è il luogo della riflessione che va oltre le apparenze, e in questo senso è inutile tacere i limiti di questa “presa di potere”. Il primo l’abbiamo già evidenziato, ed è comune a molti notisti politici: per fare il segretario ci vogliono base e nomenclatura, e per averli dalla propria parte Renzi ha dovuto, e ancor più dovrà, perdere molto della sua identità. Il secondo è un limite che Renzi si porta dietro fin dall’inizio della sua “discesa in campo”: non esce fuori dallo schema bipolare, e questo da un lato favorisce il restare sulla scena del Cavaliere (vedremo poi se ne uscirà per ragioni di forza maggiore o se, come temiamo, farà di quelle ragioni il motivo dell’ennesima buona prova elettorale) e dall’altro alimenta la componente frontista e giustizialista della sinistra. Il terzo limite è che, pur non essendo un “anti-berlusconiano”, non è riuscito ad adottare una linea sufficientemente garantista: pensate come sarebbero spiazzati Berlusconi e il Pdl nei loro tentativi di vittimizzarsi se Renzi avesse firmato i referendum radicali sulla giustizia e si fosse fatto carico di una proposta di riforma generale della giustizia. Il quarto limite è dato dalla carenza programmatica di Renzi, che appare inversamente proporzionale alla sua forza mediatica.

Ma la vera scommessa è, nel breve, se e come Renzi sia capace di influenzare il corso della politica nella stretta del Berlusconi dentro o fuori. Finora non ha dato segni di vita. E, temiamo, farà surf nella speranza che quando diventerà segretario il problema sarà stato comunque risolto, in un modo o nell’altro. Ma se anche lui, l’uomo della “rupture”, sposa la tendenza ad allungare la palla e non giocarla mai, la Terza Repubblica quando mai potrà nascere?

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