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Public Policy

Il ruolo cardinale della Giordania

L'ultimo alleato

La nuova cinghia di trasmissione e centro di smistamento delle istanze rivoluzionarie

di Antonio Picasso - 19 maggio 2011

«Il ruolo della Giordania è cardinale nella ripresa del processo di pace tra israeliani e palestinesi». A leggere il Jordan times di ieri, si ha la percezione che la visita del re di Giordania, Abdallah II, a Washington possa cambiare le sorti del Medioriente. Il sovrano ashemita si è confrontato con il presidente Usa, Barack Obama, dopo che, nei giorni precedenti, aveva visto Joe Biden e Hillary Clinton.

Gli incontri, in particolare quello alla Casa bianca, hanno avuto come core issue la necessità di riaprire un dialogo fra il governo Netanyahu e l’Autorità palestinese. Soprattutto alla luce della fresca riconciliazione tra Fatah e Hamas. Re Abdallah ha valutato positivamente proprio questo accordo. Sulla stessa posizione, si è trovata l’Amministrazione Usa. Tuttavia, il summit di Washington non si è concentrato unicamente su questo tema. Bensì può essere interpretato come il tentativo degli Stati Uniti di ridefinire la propria agenda mediorientale, nella sua generalità. Amman appare a Obama ogni giorno più strategica. Con il vuoto di potere che si è creato in Egitto, re Abdallah resta l’unico alleato su cui gli Usa possono davvero contare in Medioriente. Neanche l’Arabia saudita è così affidabile. Questo perchéla Giordaniamanca di indipendenza economica e di risorse energetiche. Riyadh è in grado di dettare legge sul mercato mondiale del petrolio. Amman, dal canto suo, è costretta a domandare e ricevere l’aiuto esterno per il proprio sviluppo industriale.

Opportunisticamente Israele e Stati Uniti sono i primi a offrirsi in questa operazione. Ovviamente, in cambio pretendono l’indiscusso appoggio politico. Ed è in questa chiave che va visto anche l’incontro fra il sovrano e una rappresentanza delle organizzazioni ebraiche americane.

La visita di re Abdallah ha richiamato l’attenzione di 150 imprenditori Usa da un lato e giordani dall’altro. La comunità ebraica, data la vicinanza di Israele con il regno ashemita, si è seduta in prima fila per sfruttare le occasioni di investimento. Il tutto a prescindere dalle rinnovate richieste del governo di Amman di avviare le trattative per la creazione di uno Stato palestinese indipendente con i confini pre-1967.

A questo proposito, e in attesa della visita di Benjamin Netanyahu nella capitale Usa, la situazione non promette bene per gli israeliani. Lunedì il premier, in un discorso alla Knesset, ha alluso a possibili rinunce territoriali in Cisgiordania, in favore di un futuro Stato palestinese smilitarizzato e sottoposto a strette misure di sicurezza. Ha evitato, d’altra parte, ogni riferimento al ritorno alle divisioni territoriali antecedenti la Guerra dei sei giorni.

Infine è tornato a escludere una spartizione di Gerusalemme, che danneggerebbe il cammino di riconoscimento internazionale della Città santa come capitale del costituendo Stato ebraico. In termini ancora più generali, Netanyahu ha di fatto rigettato l’accordo Fatah-Hamas.

Sorprendentemente, proprio a questa linea si starebbero avvicinando le posizioni di Obama. Almeno in parte. Secondo le anticipazioni dei media israeliani, il discorso che pronuncerà il presidente, poche ore prima del vertice con Netanyahu, sarà focalizzato sulla richiesta a Israele di tornare ai confini pre-1967. D’altro canto, si presume chela Casabianca assuma una posizione contraria al riconoscimento, in sede Onu, dello Stato palestinese. È un cerchiobottismo, quello statunitense, inatteso, ma prevedibile.

Nasce dalla speranza (e dall’urgenza) di riavviare i colloqui, dopo le tante sconfitte diplomatiche registrate nel 2010, seppure in controtendenza con la situazione dell’intero quadrante. Il tutto è giustificato dall’avvicinarsi della campagna elettorale per le presidenziali del 2012.

Non può essere una coincidenza che, ieri – appena dopo aver congedato re Abdallah – Obama abbia ricevuto una delegazione del Jewish American Heritage Month, lobby ebraica politicamente trasversale e tradizionalmente attiva sulle rive del Potomac. La Casa Biancaaspira a recuperare terreno in sede elettorale, come pure sul fronte diplomatico.

Come detto, la congiuntura internazionale non è delle migliori per un’operazione del genere. In un Medioriente dove il caos fa da padrone, gli esperti suggeriscono cautela. Washington, al contrario, sembra che preferisca agire di impulso. Le dimissioni del suo inviato speciale, George Mitchell, sono state accolte finora con diffusa freddezza. Fonti ufficiali parlano di un allontanamento volontario e per motivi di età, da parte di un 78enne quale è Mitchell.

Dopodomani, il suo posto sarà ricoperto dall’attuale numero 2 della missione, David Hale. Tuttavia agli occhi delle cancellerie arabe e di quella israeliana, l’ormai ex inviato rappresentava una garanzia di capacità negoziale ed esperienza diplomatica, rispetto a un’Amministrazione eccessivamente sicura di poter risolvere le criticità locali. Nel dibattito che si è creato intorno alla questione, emerge che Mitchell avrebbe scelto di ritirarsi in seguito alla poca fermezza dimostrata dal suo comandante in capo.

Motivo di attrito proprio la impasse nel processo di pace. Inoltre, si parla di un conflitto permanente fra Mitchell e Dennis Ross, Consigliere speciale presso il Dipartimento di Stato per al Golfo persico e Sud-Est asiatico. Il problema di Ross è quello di essere anch’egli un esperto del “nodo Gerusalemme”. Durante l’Amministrazione Clinton era lui a ricoprire un incarico simile a quello che è stato di Mitchell fino a pochi giorni fa. Questo avrebbe provocato l’incompatibilità fra i due.La Casa bianca e il Dipartimento di Stato pagano lo scotto di incaricare troppi inviati speciali per il medesimo quadrante.

A questo punto, se Obama non può contare sulla propria diplomazia – a suo giudizio perché scoordinata nel suo interno e non al passo con i suoi progetti – tanto vale rivolgersi all’estero. Ecco chela Giordania assume davvero quel ruolo cardinale decantato dalla stampa nazionale. Inoltre, a Washington devono aver studiato attentamente la carta geografica dell’area. Il Paese, in questo momento, costituisce il punto di transito dall’Egitto versola Siriaed eventualmente in direzione dell’Arabia saudita, per tutte le correnti estremistiche che stanno sfruttando la grande rivolta dei gelsomini, con l’intenzione di creare nuovi epicentri di crisi in Medioriente. Non è un caso che la frontiera conla Siriasia chiusa da quasi due mesi.

E men che meno appare una coincidenza il persistente stato di allerta, per le autorità del Cairo, a seguito del continuo ingresso di elementi salafiti. In qualità di unico Paese sostanzialmente tranquillo, nel cuore della Mezza luna fertile,la Giordania fa involotariamente da cinghia di trasmissione e centro di smistamento delle istanze rivoluzionarie – buone o cattive che esse siano. Gli Usa, per questo, hanno bisogno della garanzia di re Abdallah che almeno la situazione interna al suo regno sia sotto controllo e che i progetti di destabilizzazione siano bloccati sul nascere.

Pubblicato su Liberal del 18 maggio 2011 e su http://worldonfocus.wordpress.com/2011/05/18/lultimo-alleato/

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