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Sin dai tempi di Federico il Grande

L'ossessione burocratica

L’Italia è bloccata da una regolazione eccessiva, inefficiente e illiberale. Da secoli si parla di riduzione dell'apparato burocratico. Che il 2014 sia l'anno buono?

di Luigi Pianesi - 10 gennaio 2014

All’inizio di un nuovo anno scatta di solito un meccanismo psicologico per cui ci si impegna a cambiare qualcosa e ci si predispone alla realizzazione di una serie più o meno lunga di tristemente noti (perché di solito condannati a restare al livello delle intenzioni) buoni propositi. Al di là della disfida dei messaggi e dei contromessaggi di fine anno, non è dato sapere quali siano i buoni propositi per il 2014 della nostra classe dirigente e soprattutto se questa sia davvero intenzionata a realizzarli, quali che siano.

Al momento, il nuovo anno, al netto delle chiacchiere politiche, inizia con una legge di stabilità insoddisfacente, una serie di aumenti di tasse sparsi qua e là, l’aumento dei pedaggi autostradali, l"orrenda vicenda del decreto salva-Roma e la previsione del Centre for Economic and Business Research (Cebr), secondo cui nei prossimi quindici anni l’Inghilterra sarà la prima potenza economica europea e l’Italia, attualmente in ottava posizione, scivolerà al quindicesimo posto. La speranza è che a qualcuno venga in mente di tentare di fermare questa tendenza al disfacimento del Paese (invertirla addirittura sembra troppo). La sensazione è, invece, quella di una classe dirigente che continua a navigare a vista, senza un progetto, una visione o almeno un obiettivo concreto e immediatamente realizzabile.


In Italia larghissima parte dell’economia nazionale è intermediata dallo Stato, ma l’apparato burocratico è abnorme (e non è solo una questione di numero di dipendenti, che può non essere del tutto indicativo, anche se i circa 62.000 dipendenti, tra diretti e indiretti, per il tramite delle partecipate, del Comune di Roma ricordati da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera fanno pensare), inefficiente, poco trasparente e costoso: ciò non può che voler dire spesa pubblica inefficiente, elevata tassazione, economia in gabbia e aumento delle occasioni di corruzione. Qualche tempo fa il Sole 24 Ore ha pubblicato due inchieste importanti, che inducono a qualche riflessione in tema di rapporto tra tassazione, burocrazia e – in ultima analisi – libertà dei cittadini. I dati che emergevano erano e sono, infatti, sconfortanti: da un lato, dalla nascita delle Regioni la pressione fiscale è aumentata dal 27% al 44,7%; dall’altro, nel periodo che va dal 2001 – anno della famigerata riforma del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione – al 2010 le spese correnti delle Regioni sono mediamente aumentate del 40%. Questi dati sarebbero preoccupanti già di per sé, singolarmente considerati. Tuttavia, l’aspetto più meritorio delle inchieste del Sole risiede nel far emergere in modo chiaro non solo il collegamento tra aumento delle spese e aumento della pressione fiscale, che sembra dar ragione a chi sostiene che più soldi si danno allo Stato, più questo li spende e ne pretende, ma anche tra aumento della pressione fiscale, aumento delle spese correnti e organizzazione istituzionale dello Stato.

Come ha ben messo in luce Aldo Canovari in un articolo apparso sul Foglio, a fronte dei tanti tax payers stanno altrettanti tax consumers, che si annidano in un apparato pubblico ipertrofico e onnipresente, che, oltre a costituire un freno agli investimenti e alla crescita economica, assorbe risorse dirottandole su spese improduttive e inefficienti. Se è vero, come ha di recente ricordato Confartigianato, che il peso della burocrazia in Italia sulle imprese è pari a 2 punti percentuali di PIL e che anche a causa dell’apparato burocratico l’Italia si trova al 65° posto su 189 della classifica Doing Business 2014 della Banca Mondiale, è evidente che la riforma della burocrazia sarebbe un buon punto di partenza (è emblematico che, proprio in questi giorni, la lite mediatica tra Matteo Renzi e Stefano Fassina abbia visto più di un richiamo alla mitica figura del “grigio burocrate”). E ciò a cominciare dai meccanismi di selezione, che spesso sono del tutto inefficienti nella scelta dei migliori, specie quando si tratta di reclutare i vertici dell’apparato burocratico.

Un esempio tra tanti: la preselezione in un recente concorso per dirigenti del Ministero dell"Interno è avvenuta attraverso quiz a risposta multipla scelti tra 3500 domande pubblicate in gazzetta ufficiale un mese prima con l"indicazione della risposta giusta. Basta dare un"occhiata alle domande per vedere che sono ispirate al più becero nozionismo. Il bel risultato sarà che verrà selezionato per sostenere le altre prove principalmente chi ha imparato a memoria più quiz, a prescindere da capacità logica, merito, competenza, approfondimento o adeguatezza rispetto al ruolo che potrebbe andare a ricoprire. Non si cercano i migliori, ma i più gestibili e meno problematici, in mezzo ai quali i dirigenti e i funzionari competenti vengono soffocati e neutralizzati. I prodotti della burocrazia, poi, come già avvertiva Sergio Ricossa, non comportando un ricavo, se non indirettamente attraverso il gettito tributario, sono valutati al costo, il che significa che più costano e più valgono, anche se sono inutili: ciò vuol dire, concludeva Ricossa, che “i prodotti "gratuiti", come sono spesso quelli forniti dagli enti pubblici, che si finanziano imponendo dei tributi ai contribuenti, basta che accontentino i politici: non c"è bisogno che accontentino anche i consumatori. Di conseguenza, tutti i salari pagati ai burocrati pubblici ingrossano il prodotto nazionale netto, a prescindere dal giudizio che, sull’operato di costoro, forniscono i cittadini”. Tutto ciò comporta, come ben sa chi quotidianamente si trova a doversi confrontare con la nostra burocrazia e sia pur con tutte le dovute e meritorie eccezioni, a tutti i livelli di governo, scarsa trasparenza, scarsa competenza, assenza di responsabilità di un apparato che dovrebbe essere servente rispetto alle attività dei cittadini e che invece è, spesso, opprimente e vessatorio nei loro confronti.

Già nel 1944 Ludwig von Mises ricordava che l’orizzonte intellettuale dei burocrati è “la gerarchia, le sue norme, i suoi regolamenti. Il loro destino è dipendere interamente dal favore dei propri superiori. (…) L’insuccesso della burocrazia europea non è certamente imputabile all’incapacità del personale. È stato piuttosto l’esito dell’inevitabile debolezza di qualsiasi gestione degli affari pubblici. L’assenza di criteri in grado di accertare in modo netto il successo o l’insuccesso di un funzionario nell’esecuzione dei suoi doveri crea problemi insolubili. Essa annienta l’ambizione, distrugge lo spirito di iniziativa e qualsiasi incentivazione a fare più del minimo richiesto. E spinge il burocrate a porre attenzione alle circolari e non al successo tangibile e reale”. La situazione è resa ancora più grave da almeno due circostanze. Da un lato, il fatto che al cuore degli apparati amministrativi siedono spesso coloro che poi potranno essere chiamati a giudicare sugli atti di quelle stesse amministrazioni (per un riscontro empirico è sufficiente verificare il numero dei magistrati ordinari e amministrativi che rivestono cariche di capo di gabinetto, capo ufficio legislativo, ecc.). Dall"altro, l"inefficienza della giustizia, che rende altamente improbabile la sanzione per comportamenti scorretti: il legame tra potere e responsabilità è spezzato.

L’ipertrofia burocratica, con il carico di norme e regole, scarsamente comprensibili e a volte neppure facilmente conoscibili, che porta inevitabilmente con sé, non fa altro che rendere i cittadini soggetti deboli nei confronti dell’apparato amministrativo, nei cui confronti si trovano in una posizione di soggezione e devono rapportarsi con saperi specializzati di cui i soli burocrati, al tempo stesso creatori, custodi e esecutori delle regole, sono depositari e asimmetrie informative a tutto vantaggio del lato pubblico. L’horror vacui che attanaglia il nostro legislatore e i regolatori è tale da spingerli a tentare di disciplinare dettagliatamente ogni singolo aspetto dei settori della vita civile, economica e sociale e così facendo si cade in una spirale di iperregolazione inefficiente, delirante e in definitiva illiberale. Settori importanti della nostra economia sono soffocati da norme, che dettano regole minuziose, che non fanno altro che accrescere l’incertezza e il contenzioso: si pensi ai contratti pubblici, relativamente ai quali la disciplina dettata dal Codice dei contratti e dal regolamento di attuazione è improntata ad una tale burocratizzazione delle procedure di scelta del contraente, che, lungi dal replicare un mercato concorrenziale, assomigliano sempre più ad un racconto kafkiano (basta leggere le norme dedicate al project financing, più e più volte modificate, che dovrebbero consentire la realizzazione di opere mediante il ricorso a capitali privati e ottengono, invece, il duplice risultato di un gran mal di testa per chi le dovrebbe applicare e la fuga a gambe levate dei privati che si vorrebbe coinvolgere).

“La libertà cresce negli interstizi del procedimento”, recita un detto inglese, ma in Italia questi interstizi non ci sono più, sono stati occupati da altri procedimenti, che si intersecano tra loro e che ben potrebbero essere snelliti, da uffici inutili, da duplicazioni di oneri e procedure, da adempimenti irrazionali e illogici, il cui unico scopo sembra a volte essere quello di realizzare ciò che Charles Dickens ha mirabilmente descritto nel decimo capitolo di Little Dorrit come il Ministero delle Circonlocuzioni, la cui unica, ma fondamentale competenza e occupazione, qualunque cosa si debba fare, è quella di trovare il miglior modo per non farla. La strada, al contrario, non può che essere quella della razionalizzazione e della riduzione dell"apparato burocratico (compresa l"eliminazione delle società partecipate, la cui persistenza è garantita dalle continue proroghe del termine della loro dismissione o del loro scioglimento accordate da una classe politica che non ha alcuna intenzione di mollare l"osso) e della spesa pubblica, del "disboscamento regolatorio" con l"attenzione rivolta (finalmente) all"analisi di impatto della regolamentazione e alla qualità della normazione, della riqualificazione del personale e della sua efficiente ridistribuzione tra i diversi settori, della effettiva e reale responsabilizzazione della dirigenza, del buon funzionamento della giustizia. Nulla di nuovo, si dirà: ma ancora niente di concreto in questo senso è stato fatto.

Occorre spezzare il circolo vizioso per cui la burocrazia si autoalimenta: da un lato vengono imposti oneri amministrativi ai cittadini che non hanno alcun senso che non sia quello di giustificare l’esistenza dei corrispondenti corpi burocratici; dall’altro le risorse prelevate dai cittadini con l’imposizione fiscale vengono assorbite dai costi di mantenimento dell’apparato burocratico e non vengono utilizzate per la prestazione dei servizi ai cittadini. Se può consolare, il tema non è nuovo. Si racconta che già ai tempi di Federico il Grande la questione della burocrazia mangia soldi si era imposta all’attenzione del Sovrano. Un aneddoto illuminante è riportato da Charles Adams nel suo libro For Good and Evil in questi termini: “Durante una delle sue riunioni di Gabinetto Federico chiese al suo ministro delle finanze perché il suo tesoro era così sfornito quando invece i suoi sudditi pagavano così tante tasse. Dove andava a finire tutto il denaro? Per spiegare il problema, il ministro delle finanze chiese che gli fosse portato un pezzo di ghiaccio. Lo diede al ministro che si trovava più lontano dal re e gli disse di passarlo al suo vicino, che a sua volta doveva passarlo al suo vicino e così via fino a farlo arrivare dal re. Per quando il ghiaccio giunse da Federico, tutto quello che il re ottenne fu una mano bagnata. La maggior parte delle imposte viene consumata dalla burocrazia. Tutt’al più ci si può stupire che Federico almeno una mano bagnata sia riuscito ad averla”.

Sarà giunta l’ora di provare a invertire la tendenza?

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.