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Nessuno gioisca

L'orrendo foco

Le dimissioni di Bossi sono il suggello di un fallimento istituzionale

di Davide Giacalone - 06 aprile 2012

Nessuno gioisca, per le dimissioni di Umberto Bossi. Comunque le si voglia vedere sono il sugello di un fallimento, che è prima di tutto una bancarotta istituzionale. Incapaci di cambiare le istituzioni e di far funzionare la cosa pubblica, i partitelli della seconda, talora grossi e talora tinelli familiari, comunque miseri nel patrimonio politico e intellettuale, compiono per intero il giro di giostra e scendono laddove avevano esultato per la fine di quelli che avevano più lunga storia. Si misero fuori dai tribunali, inneggiando alla gogna (lo fecero tutti: dalla Lega al Movimento Sociale, da Forza Italia agli ex comunisti, frequentemente ribattezzati, ma da sé medesimi condannati ad essere solo ex se stessi), ora tornano in tribunale, ma da accusati. Non è la solita storia del moralista moralizzato, dell’epuratore epurato, del contestatore poi contestato, è la storia di tre repubbliche: della seconda, mai nata e defunta; della prima, mai sepolta eppur soffocata; e della terza, che non nasce perché non trova genitori.

Si definirono “ladri” quanti lavorarono al finanziamento di partiti che avevano radici storiche e democrazia interna, ma non seppero comprendere la fine della guerra fredda e non ebbero la capacità di far subito uscire quel finanziamento, dovuto e necessario, per molti aspetti benefico, dall’irregolarità alla normalità democratica. Quei “ladri” operarono in partiti poveri, continuamente bisognosi di soldi, costretti a misurarsi, specie quelli della sinistra democratica, con la potente e ricchissima macchina propagandista della sinistra comunista, abbondantemente foraggiata con soldi sporchi di sangue. Penso a uomini come Severino Citaristi o Vincenzo Balsamo, che mai avrebbero potuto immaginare un mondo nel quale i partiti sono così ricchi che chi li amministra può rubare loro. Eppure questo è il mondo che i falsi moralizzatori hanno creato, con un finanziamento pubblico esagerato, devoluto a partiti che non sono partiti, ma congreghe d’interessi o proprietà personali.

Non è questa, però, la colpa che li conduce a perdizione. Pagano l’inutilità dei loro scontri, l’immobilità in cui hanno ingabbiato l’Italia, l’incapacità di cambiare il sistema istituzionale. La lunga battaglia della Lega, per il federalismo, nacque con toni e motti inaccettabili, triviali, rozzi, ma pur sempre incarnazione della rivolta contro un centralismo statolatrico che doveva e deve essere superato. E’ divenuta difesa delle province e assimilazione ai peggiori costumi ministeriali. Vedere i marescialli leghisti scorrazzare, con le auto blu e scortati, per la Roma governativa, induceva a compassione, ancor più che a estetico disagio. I poverelli erano stati assorbiti, masticati, ridotti a bolo e deglutiti. Ora la digestione ha compiuto il suo corso. Il federalismo resta la bandiera di un’immane perdita di tempo, incapace di giungere all’unico risultato concreto accettabile: piena corrispondenza fra chi chiede soldi ai cittadini e chi li spende, talché ciascuno, votando, possa decidere se quei soldi sono stati spesi come promesso. Il centro destra ha fallito questo obiettivo, mentre il centro sinistra riuscì a far di peggio: per succhiare la ruota della propaganda federalista cambiò la Costituzione (la stessa che sostengono sia intoccabile) e scassarono lo Stato, riducendolo in coriandoli. Questo pagano, tutti. E non sono gli unici colpevoli. Per quasi venti anni l’unico tema che ha avuto cittadinanza sui mezzi di comunicazione è stata la faziosità degli schieramenti. Quanti s’incaponivano a occuparsi della sostanza venivano trattati da servi o da traditori, sol perché si rifiutavano d’assimilarsi alla sfilata d’ignavi. Ed ecco il risultato: un Paese stremato, un governo commissariale, una tassazione intollerabile, una spesa pubblica che non scende, e presunte coscienze pubbliche che sanno solo fare il verso al lamentio leghista originario, ripulito dal turpiloquio. Proposte, idee, soluzioni: zero. Bossi, il guerriero, cade nella polvere. Ma non è storia di oggi, è l’epilogo di un lungo degrado. Dal familismo all’imposizione degli uomini propri, la Lega s’è resa uguale e peggiore di quel che contestava. Pensate a Irene Pivetti: nata pura combattente leghista, contro i privilegi del palazzo (così denominato senza neanche aver memoria pasoliniana), finì a far ricorso perché le tolgono privilegi che nessuna persona sensata oserebbe mai attribuire a chi è di totale inutilità alla collettività.

Ironia della storia: l’epilogo avviene per mano giudiziaria. La stessa che spianò la strada leghista. Il cappio che sventolarono ora se lo possono mettere al collo, e so bene che non gradiranno affatto la voce di chi era, rimase ed è garantista, perché il nostro considerare innocenti quanti non siano definitivamente condannati è, per questo leghismo, come il nominare Belzebù in luogo sacro. Accesero la pira, inneggiarono alle carni arse, presero il posto dei defunti, ma dimenticarono d’estinguere la fiamma. Che ora li brucia. Giustizialisti sono sempre rimasti, ed è questo che ha impedito loro, come agli ex fascisti, del resto, di battersi per la giustizia. Certo, hanno coperto Silvio Berlusconi nel suo scontro con la magistratura, ma lo hanno fatto per furbizia, che si rivela fessaggine, per trarne un vantaggio negoziale, che ora li distrugge. Nessuno gioisca, dunque, benché si fatichi a soffrirne. Da oggi l’elettorato leghista va a far compagnia a tanti altri italiani, privi di rappresentanza. E siccome si dovrà pur ripartire, si sappia che il primo passo nella giusta direzione non sarà un’ulteriore negazione della politica, ma la consapevolezza che l’Italia ha bisogno di ripensare profondamente le proprie istituzioni. Non esistono leggi che creano statisti, esistono sistemi inutili che generano miseria. Non ci sono sistemi istituzionali comunque votati al bene, ce ne sono in cui chi vince le elezioni governa e poi torna ad essere giudicato. Questo è quello cui dobbiamo puntare, sapendo che solo quella strada porta alla selezione di un’accettabile classe dirigente. Il resto, compresi i governi commissariali, sono parentesi. Talune si chiudono in fretta, e sono le migliori. Altre si chiudono per esaurimento, nel tragicamente ridicolo.

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