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Gabbia Europa

L'orizzonte radioso dell'export italiano

Le esportazioni extra Ue salgono del 5%, meglio dei tedeschi (-0,2%). Occorre riformare le banche per aiutare le aziende

di Davide Giacalone - 20 maggio 2013

C’è un orizzonte radioso, davanti a noi, se solo si solleva la testa dalla palta in cui ci dibattiamo. Ad averne consapevolezza c’è anche la chiave per far uscire l’Europa dall’asfissia cui è stata ridotta. Passiamo il tempo a dipingerci come ridotti in miseria e destinati al decadimento, sicché non vediamo non solo le opportunità che ci sono, ma anche la realtà della nostra forza nazionale. Anzi, peggio: se provi a parlarne ti riempiono d’insulti, considerando il disastro l’unica verità accettabile. Eppure quell’orizzonte c’è.

I dati del primo trimestre 2013 segnalano un calo delle nostre esportazioni, dello 0,7%. Brutta cosa, perché quello è il nostro forte. Ma se si guarda dentro si scopre che le esportazioni al di fuori dell’Unione europea sono cresciute del 5%. Siamo forti e sappiamo correre. Paghiamo la recessione europea, certo, ma la pagano di più i tedeschi, che pure l’anno provocata: le loro esportazioni calano dell’1,2%, e segnatamente dello 0,2 al di fuori dell’Ue. Li abbiamo battuti. E ci siamo riusciti partendo da condizioni di enorme svantaggio, perché le nostre imprese non trovano credito e quando lo trovano lo pagano assai più dei concorrenti tedeschi (che è la colpa più grande dei nostri governi, incapaci di far valere la negazione del mercato europeo che questo comporta, incapaci di dire che se la Germania rifiuta il sistema bancario europeo allora non possono valere gli altri vincoli che ci vengono imposti).

Tutti si sono messi a parlare dell’Abeconomics, che sarebbe quella impostata dal nuovo capo del governo giapponese, Shinzo Abe: stampando denaro ha strappato il suo Paese dalla stagnazione-recessione e gli sta consentendo di crescere più del 3%. In Giappone, però, il debito pubblico è al 240% sul pil, posseduto per la grandissima parte dai cittadini giapponesi. Era l’Italia degli anni 70-80, con un debito assai inferiore. Non è solo il Giappone, però, a muoversi: il mercato interno cinese è divenuto sempre più ricco e sempre più propenso a consumi di qualità, mentre la convenienza produttiva dell’oriente diminuisce, crescendo il costo del lavoro, e molte aziende statunitensi rientrano in patria. Per noi sono due fortune. La Cina non deve essere vista, con un ritardo decennale (come i loro piani) d’analisi, come il concorrente per la merce di scarso valore e basso costo, anche grazie a dumping sociale, ma un mercato in cui espandersi. In cui “made in Italy” è sinonimo di roba buona e preziosa. Il rimpatrio statunitense ci riconsegna un mercato crescente per i nostri prodotti a maggiore valore aggiunto, anche di ricerca, tecnologia e innovazione. Senza dimenticare che nelle nostre esportazioni sono incorporati anche semilavorati che ancora importiamo in condizioni di convenienza (questa quota di valore era pari al 20,8% nel 2000 ed è giunta al 27,1 nel 2011).

A ciò aggiungete che i francesi si sono finalmente accorti che mettersi sotto l’ala tedesca, come ciecamente e colpevolmente fecero, non significa ripararsi, ma farsi soffocare. Si sono accorti che se loro salvano le loro banche questo gli pesa sul debito pubblico, mentre i tedeschi fanno la stesa cosa contabilizzandola in modo diverso e, quindi, sfuggendo ai costi che il mercato impone. Hanno capito che non c’è una sola ragione al mondo per rassegnarsi alla recessione economica, propiziata dalla regressione politica. Quindi si creano le condizioni per rompere l’assedio dell’ottusità e dell’egoismo.

Però, attenti a due cose. Primo, che nessuno pensi di usare quest’ultima condizione per ridare flusso alla spesa pubblica improduttiva, che, invece, va tagliata, tagliata e ritagliata, al fine di far scendere l’intollerabile pressione burofiscale e recuperare risorse per gli investimenti. Secondo, se non ci sbrighiamo a capire e far valere la nostra forza va a finire che anziché occupare noi i mercati che crescono, con i nostri prodotti e le nostre idee, sarà la loro ricchezza finanziaria, con la liquidità, a occupare il nostro sistema produttivo. L’Italia senza sistema industriale è meno di una meta turistica, al più un giardino per anziani. Abbiamo il dovere di difendere le nostre aziende, piantando duramente la grana del sistema bancario europeo. Invece che praticare l’eutanasia tributaria.

L’orizzonte è radioso, ma noi ce ne stiamo girati dall’altra parte. Per vederlo si devono gettare le bende nere del nostro fazioso e deficiente dibattito interno. Abbiamo già pagato prezzi enormi all’incapacità di capire e difendere gli interessi nazionali, dileggiandosi ciascuno nel vedere l’avversario interno cotto alla brace dell’ostilità esterna, sogghignando nel mentre i tizzoni ci arrostivano le terga.

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