Incalzare il governo per superare il declino
Lo stato confusionale imprenditoriale
Dalla leadership dell’industria italiana ci si aspetta più fermezza e chiarezza di ideedi Enrico Cisnetto - 16 aprile 2010
Se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, l’assise di Parma di Confindustria ha confermato il grave stato confusionale in cui versano gli imprenditori italiani. Da un lato, infatti, la relazione introduttiva (Paolazzi) e quella autorevole di Nouriel Roubini, nonché il taglio dato al convegno, tendevano a sottolineare i gravi problemi della nostra economia, tanto che la Marcegaglia si era spinta a parlare di declino, seppure parziale, e a usare toni piuttosto concitati.
Lo stesso ministro Tremonti ha usato – giustamente – parole preoccupate circa la crisi mondiale (“non è ancora finita”) e i suoi effetti. Peccato che non fosse ancora disponibile il bollettino economico di Bankitalia, uscito ieri, perché si avrebbe avuto conferma che “in Italia la ripresa economica è ancora debole” perché “sconta non solo fattori congiunturali ma anche ritardi strutturali” tali per cui “a fronte della persistente debolezza della domanda interna, le esportazioni mostrano un dinamismo insufficiente”.
Dall’altro lato, però, ecco l’intervento – applauditissimo – di Silvio Berlusconi, teso a raccontare una storia tutta diversa: non solo a esaltare, come è logico che fosse, l’azione del suo governo, non solo a confutare l’esistenza del declino – bollando, more solito, come disfattisti e catastrofisti coloro che ne parlano – ma addirittura arrivando a sostenere che va tutto bene, molto meglio che altrove. Tesi non suffragata da nulla (il premier ha citato alcuni dati in modo disordinato e impreciso), se non dal solito sermone sull’ottimismo, come sempre confuso con la determinazione (che è tutt’altra cosa).
Il presidente del Consiglio si legga, a questo proposito, il già citato bollettino di Bankitalia, laddove si sostiene che per noi “pesa il differenziale di competitività con gli altri Paesi”, e in particolare rifletta sui tre deficit del capitalismo italiano che vengono individuati come i motivi – peraltro riconfermati, perché preesistenti alla crisi mondiale – dell’incapacità di tener testa alla dinamica della domanda mondiale: la perdita di competitività di prezzo superiore a quella osservata in Francia e Germania; una specializzazione settoriale tuttora sbilanciata verso i comparti tradizionali del manifatturiero; una limitata presenza nei mercati emergenti più dinamici, come quelli dell’Asia. E con lui lo leggano bene anche in Confindustria, vista la tendenza ad attribuire solo a fattori esterni alle imprese – fisco, credito, burocrazia, ecc. – le responsabilità della scarsa produttività e competitività nazionale.
Ma torniamo a Parma. Come si fa a conciliare due visioni così diverse, per non dire opposte, della situazione italiana? Come si fa a condividere le lamentele, sacrosante, del premier sulla pratica del diritto di veto degli enti locali, a cominciare dalle regioni – lui lo ha fatto in relazione al cosiddetto “piano casa” – senza metterle in relazione con il “federalismo realizzato” di cui questa maggioranza, spinta dalla Lega, si è fatta complice negli anni? Ma, soprattutto, come si fa a dire “fate, e fate presto” senza indicare cosa fare e come farlo? Niente sulle pensioni, niente sulla sanità, niente sul federalismo sbagliato, niente sull’elefantiasi istituzionale – ci vuole tanto a mettersi alla testa di un movimento popolare per l’abolizione delle province e il dimezzamento del numero dei comuni e delle regioni? – niente sul debito pubblico da abbattere.
Si vorrebbero più soldi da spendere – ma anche sul come spenderli ci si limita alle solite idee di riduzione del carico fiscale e di sostengo alla domanda a pioggia, senza nessun criterio di selettivo – tuttavia non si dice quale spesa pubblica corrente si debba tagliare per ricavare spazi che altrimenti non ci sono (qui ha ragione Tremonti, tanto più in piena crisi greca). Insomma, dalla leadership dell’industria italiana ci si aspetterebbe maggiore fermezza – che brutto segno quel tu al presidente del consiglio ostentato in pubblico, presidente Marcegaglia – e maggiore chiarezza di idee – il declino c’è o non c’è? Non si può applaudire indifferentemente l’una e l’altra tesi – oltre che una diversa capacità di proposta.
Lo so, il bipolarismo armato fa correre il rischio che anche solo incalzare il governo, non dico criticarlo, faccia credere che si vuole stare all’opposizione e con l’opposizione. Ma è un rischio che va corso. Anche per cominciare a smontare proprio quel sistema politico che, prima di ogni altra cosa, porta la responsabilità del declino (e già, c’è) che il Paese vive da un quindicennio.
Lo stesso ministro Tremonti ha usato – giustamente – parole preoccupate circa la crisi mondiale (“non è ancora finita”) e i suoi effetti. Peccato che non fosse ancora disponibile il bollettino economico di Bankitalia, uscito ieri, perché si avrebbe avuto conferma che “in Italia la ripresa economica è ancora debole” perché “sconta non solo fattori congiunturali ma anche ritardi strutturali” tali per cui “a fronte della persistente debolezza della domanda interna, le esportazioni mostrano un dinamismo insufficiente”.
Dall’altro lato, però, ecco l’intervento – applauditissimo – di Silvio Berlusconi, teso a raccontare una storia tutta diversa: non solo a esaltare, come è logico che fosse, l’azione del suo governo, non solo a confutare l’esistenza del declino – bollando, more solito, come disfattisti e catastrofisti coloro che ne parlano – ma addirittura arrivando a sostenere che va tutto bene, molto meglio che altrove. Tesi non suffragata da nulla (il premier ha citato alcuni dati in modo disordinato e impreciso), se non dal solito sermone sull’ottimismo, come sempre confuso con la determinazione (che è tutt’altra cosa).
Il presidente del Consiglio si legga, a questo proposito, il già citato bollettino di Bankitalia, laddove si sostiene che per noi “pesa il differenziale di competitività con gli altri Paesi”, e in particolare rifletta sui tre deficit del capitalismo italiano che vengono individuati come i motivi – peraltro riconfermati, perché preesistenti alla crisi mondiale – dell’incapacità di tener testa alla dinamica della domanda mondiale: la perdita di competitività di prezzo superiore a quella osservata in Francia e Germania; una specializzazione settoriale tuttora sbilanciata verso i comparti tradizionali del manifatturiero; una limitata presenza nei mercati emergenti più dinamici, come quelli dell’Asia. E con lui lo leggano bene anche in Confindustria, vista la tendenza ad attribuire solo a fattori esterni alle imprese – fisco, credito, burocrazia, ecc. – le responsabilità della scarsa produttività e competitività nazionale.
Ma torniamo a Parma. Come si fa a conciliare due visioni così diverse, per non dire opposte, della situazione italiana? Come si fa a condividere le lamentele, sacrosante, del premier sulla pratica del diritto di veto degli enti locali, a cominciare dalle regioni – lui lo ha fatto in relazione al cosiddetto “piano casa” – senza metterle in relazione con il “federalismo realizzato” di cui questa maggioranza, spinta dalla Lega, si è fatta complice negli anni? Ma, soprattutto, come si fa a dire “fate, e fate presto” senza indicare cosa fare e come farlo? Niente sulle pensioni, niente sulla sanità, niente sul federalismo sbagliato, niente sull’elefantiasi istituzionale – ci vuole tanto a mettersi alla testa di un movimento popolare per l’abolizione delle province e il dimezzamento del numero dei comuni e delle regioni? – niente sul debito pubblico da abbattere.
Si vorrebbero più soldi da spendere – ma anche sul come spenderli ci si limita alle solite idee di riduzione del carico fiscale e di sostengo alla domanda a pioggia, senza nessun criterio di selettivo – tuttavia non si dice quale spesa pubblica corrente si debba tagliare per ricavare spazi che altrimenti non ci sono (qui ha ragione Tremonti, tanto più in piena crisi greca). Insomma, dalla leadership dell’industria italiana ci si aspetterebbe maggiore fermezza – che brutto segno quel tu al presidente del consiglio ostentato in pubblico, presidente Marcegaglia – e maggiore chiarezza di idee – il declino c’è o non c’è? Non si può applaudire indifferentemente l’una e l’altra tesi – oltre che una diversa capacità di proposta.
Lo so, il bipolarismo armato fa correre il rischio che anche solo incalzare il governo, non dico criticarlo, faccia credere che si vuole stare all’opposizione e con l’opposizione. Ma è un rischio che va corso. Anche per cominciare a smontare proprio quel sistema politico che, prima di ogni altra cosa, porta la responsabilità del declino (e già, c’è) che il Paese vive da un quindicennio.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.