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Public Policy

La lezione della Germania

Lo spread della disoccupazione

Le riforma mancate o pasticciate fanno aumentare lo spread sul lavoro

di Enrico Cisnetto - 14 gennaio 2013

Altro che spread. In Europa nessuna variabile macroeconomica genera un “differenziale” così forte come la disoccupazione, tanto da far risultare i tedeschi dei marziani. Già, ma perché in Italia e in altri 17 paesi europei (su 27) il tasso di senza lavoro è in forte aumento, mentre in Germania diminuisce? Perché la percentuale di tedeschi disoccupati (5,4%) è meno della metà di quella media dell’eurozona (11,8%) e di quella italiana (11,1%, ma noi abbiamo la cassa integrazione che “maschera” almeno due punti) e il 50% esatto di quella della Ue27 (10,8%)? Ma soprattutto, perché la disoccupazione giovanile colpisce molto più noi (37,1%, solo Spagna e Grecia fanno peggio con un drammatico 57%) della stessa Europa (l’eurozona è al 24,4% e la Ue27 al 23,7%), mentre la Germania ha solo l’8%?

Il ministro Fornero sostiene che il merito va alla riforma del mercato del lavoro che Schroeder fece a metà degli duemila, al quale inizialmente produsse più disoccupati, e poi nel tempo dispiegò i benefici. È vero solo parzialmente. Nel senso che non fu tanto quella riforma a produrre i 5 milioni di disoccupati che costrinsero l’Spd a fare la grande coalizione con i popolari e consegnare il cancellierato alla Merkel, quanto la mega trasformazione dell’economia tedesca (delocalizzazione a est delle produzioni a basso contenuto tecnologico e concentrazione su grandi imprese con forte capacità di innovazione), da cui è poi disceso, una volta a regime, l’aumento occupazionale successivo. Dunque la flessibilità del lavoro è stato un pezzo, importante ma limitato e soprattutto finalizzato, di una politica economica e industriale di straordinaria lungimiranza. L’unica, in Europa, capace di adeguarsi alla globalizzazione, rendendola virtuosa.

Può sembrare una distinzione di lana caprina, ma invece è essenziale. Da noi non c’è stato, neppure con il governo Monti, un disegno organico di trasformazione del nostro sistema economico, e dunque l’incidenza del mercato del lavoro non poteva che essere relativa. Se poi a questo si aggiunge che gli obiettivi della riforma Fornero, condivisibilissimi, non hanno trovato la giusta declinazione normativa e attuativa, se ne ricava che non c’è nessuna stampella a cui aggrappare le nostre speranze. Questo non significa che il governo che uscirà dalle urne (ammesso e non concesso che ve ne sia uno) debba stravolgere la riforma, specie se fosse il cavallo di Troia per minare la ben più importante riforma delle pensioni (nessuna questione “esodati”, per quanto grave, lo giustificherebbe). Basterebbe, invece, cercare di recuperare lo spirito della riforma stessa – cioè lo scambio tra più flessibilità (minori tutele) per i lavoratori a tempo indeterminato (specie pubblici) e meno precarietà (maggiori tutele) per quelli a tempo determinato e atipici – per calarlo nella legge e, soprattutto, nella realtà. Magari approfittando del fatto che in Europa l’allarme lavoro spinge a immaginare politiche finalmente comuni, come per esempio la creazione di un salario minimo garantito (proposta Juncker). In cambio del quale in Italia si potrebbe abbandonare quel vecchio arnese (costoso e tendente a conservare aziende decotte e posti di lavoro inesistenti) della cassa integrazione. Già, peccato che la campagna elettorale si occupi di Berlusconi e Santoro…

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.