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L'insostenibile posizione di Fini

L'<i>affaire</i> Delfino

L’intero sistema politico, non solo il Popolo delle Libertà, deve trovare un punto d’equilibrio

di Davide Giacalone - 21 aprile 2010

Gianfranco Fini dovrebbe dimettersi dalla presidenza della Camera dei Deputati. L’istituto delle dimissioni non va per la maggiore, dalle nostre parti, e si tende a credere che debba offrirle chi si accorge di avere torto. Invece capita che rafforzino le ragioni. Credo che debba dimettersi, e subito, proprio perché ho sostenuto (qui piuttosto solitario) che le motivazioni dello scontro con Silvio Berlusconi sono prevalentemente politiche, e solo secondariamente personali. Così come ho scritto che Fini non ha torto, quando indica alcuni rischi che il centro destra corre. Non condivido la scelta dei temi, da lui fatta per distinguersi, e non credo affatto che la svolta radical-libertaria (con annesso richiamo ad un incolpevole Giorgio Gaber) sia destinata a portare efficacia e credibilità. Non si sente il bisogno di nipoti dei fiori. Ma l’intero sistema politico, non solo il Popolo delle Libertà, deve trovare un punto d’equilibrio fra la personalizzazione delle campagne elettorali e la necessità di selezionare idee e uomini nuovi. Sono convinto, con Rigoletto, che i cortigiani siano “vil razza dannata”, e le voci indipendenti restano preziose, anche se fastidiose.

Fini, però, si trova in una posizione singolare, in gran parte insostenibile. Sia che resti all’interno del Pdl sia che ne esca, sia che dia vita a nuovi gruppi parlamentari sia che giunga a più miti consigli, come fa a svolgere la funzione cui la maggioranza lo ha eletto? Alla prima presa di posizione sulla centralità del Parlamento e contro la proliferazione dei decreti legge, le sue parole verrebbero lette come la continuazione dello scontro interno ad un partito, e, per ciò stesso, sarebbero imbracciate dagli oppositori per colpire la maggioranza, di cui lui continuerebbe a far parte.

Alla prima calendarizzazione (orrendo modo d’indicare l’organizzazione dei lavori parlamentari), o al primo indirizzo circa il voto segreto che sia favorevole al governo e avverso dall’opposizione, subito si direbbe che si tratta di una costrizione cui si è dovuto piegare, pena l’essere buttato fuori. Senza contare che se la maggioranza dovesse entrare in crisi a seguito delle sue posizioni, accadrebbe che il Presidente della Repubblica dovrebbe consultarlo, non si sa se come causa o come carica preposta ad evitare le crisi.

Inoltre, egli si è sottratto alla campagna elettorale, non ha preso parte alle manifestazioni di partito, adducendo la ragione della sua carica istituzionale, ora, però, a parte l’infondatezza scolastica di tale motivazione, si troverebbe, dalla medesima sedia, a gestire la fondazione di un nuovo gruppo o l’avvio di una lotta intestina, buttando nel ripostiglio tutti quei latinorum ipocriti che recitano il verso scialbo del “super partes”.

I presidenti delle due Aule sono eletti dalla maggioranza, all’inizio delle legislature, proprio perché rappresentano la volontà parlamentare di chi ha vinto le elezioni. Quando i vincitori sono saggi, il che non avviene sempre, scelgono candidati che sappiano garantire la regolarità dei lavori e il rispetto delle minoranze, oltre che di ciascun parlamentare. Questo, però, non fa dei due presidenti dei soggetti quirinalizi, perché diversa è la loro natura e la loro funzione, così come descritte dalla Costituzione. Si dirà: ma un tempo si assegnava il presidente di una delle due Camere alla minoranza.

Sbagliato: Pietro Ingrao fu il primo presidente comunista della Camera (poi seguito da Nilde Iotti) proprio perché il suo partito cessava d’essere opposizione e compartecipava ufficialmente alla cogestione (difatti furono scritti, in quel momento, pessimi regolamenti parlamentari, che ancora, in parte, ci portiamo appresso).

Infine, se non sono io a sbagliarmi, se le ragioni dello scontro sono politiche, queste devono trovare voce in modo autorevole, non potendo essere rappresentate da qualche iracondo e supponente ufficiale di complemento, il che esclude il congelamento istituzionale di chi guida le truppe, come sconsiglia, vivamente, l’uso della carica istituzionale per tenerle assieme. Non a caso, infatti, i presidenti delle Camere sono (dovrebbero essere, diciamo) persone autorevoli che, però, non capeggiano forze o manipoli politici, oppure ex capi di partito, cui l’esito delle passate battaglie ha insegnato il valore dell’equilibrio. Fuori da questo ci sono le mezze cartucce, messe lì perché eseguano, o quelli che si trovano nel posto sbagliato. Fini, oggi, è nel posto sbagliato.

A meno che non abbiano ragione quanti ritengono che l’agitazione in atto sia tutta concentrata su questioni personali: dal peso che si pretende di avere nella coalizione al numero di posti che si vuol garantire agli accoliti, dal desiderio d’essere il primo nell’ordine dinastico di successione alla speranza di gestire in esclusiva il rapporto con chi porta i voti grazie ai quali l’intera compagnia s’è attendata dove si trova. In questo caso, allora, sarei io a sbagliarmi, le idee c’entrerebbero poco e niente, mentre la cameratesca misurazione delle rispettive potenzialità prenderebbe il sopravvento, in una guerra di galletti che si suppongono crestuti. Se così è, mi scuso: Fini rimanga al suo posto, in attesa di finire allo spiedo.

Pubblicato da Libero

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