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Non è tempo di abbandonarsi alle ripicche

L'Italia delle lune di miele e delle liti

Ciascuno si assuma le proprie responsabilità per i prossimi tre anni

di Davide Giacalone - 13 aprile 2010

Nei giorni in cui si parlava di un presunto idillio, fra il Quirinale e Palazzo Chigi, noi puntavamo il dito verso comportamenti che avrebbero generato frizioni, come l’errore presidenziale di rinviare alle Camere la legge sul lavoro. Oggi, mentre lo scontro domina le chiacchiere, ci tocca rammentare che non ci sarà mai una resa dei conti. Bisogna mettersi bene in testa che l’intera impalcatura costituzionale è stata costruita attribuendo un insostituibile ruolo ai partiti, intendendosi per tali le famiglie culturali eredi del Risorgimento, la rappresentanza cattolica e il frutto della scissione socialista di Livorno, ovvero l’affermarsi della forza comunista. Al tempo stesso, alimentando il terrore delle maggioranze, che ci accompagna fin dall’unità, si trovarono nel proporzionalismo e nel parlamentarismo esasperato gli strumenti per reggere la coesione sociale e assicurare il minimo governo necessario. Tutto questo è passato, scomparso, non resuscitabile. Si lavora con strumenti vecchi, inadatti. Siamo ancora nel secolo passato, per questo l’Italia è bloccata e le lune di miele istituzionali si succedono alle liti furibonde.

Il Quirinale non può andare in rotta di collisione con Palazzo Chigi, perché privo di legittimazione elettorale. Giorgio Napolitano è stato, per tutta la vita, alla guida di un partito politico che gli italiani hanno sempre voluto all’opposizione. E’ un fatto. E non riguarda solo lui, è una storia, in un certo senso, iniziata con Sandro Pertini, con presidenti sempre meno espressione di partiti che li sostenevano (Pertini fu un grande socialista, ma Craxi avrebbe voluto Antonio Giolitti, candidatura che fu affondata dalla stessa sinistra che oggi lo commemora con coccodrillesco compianto).

Il Quirinale può lavorare contro un governo, ed effettivamente è più volte successo, ma mai spingersi fino al conflitto aperto, che spezzerebbe irrimediabilmente la Costituzione. Palazzo Chigi, del resto, e questo Silvio Berlusconi fa fatica a digerirlo, non può pensare di far valere la forza elettorale contro gli ostacoli istituzionali, perché si spacca la testa. E’ vero che lo staff giuridico del Quirinale s’è autoattribuito il compito di far da censore di un governo che non gradisce e nel quale non si riconosce, ma non esiste modo di sfuggire a questo vaglio, se non puntando ad una seria riscrittura costituzionale. Non ci sono vie intermedie, se non il buon viso a cattivo gioco.

La caratteristica della nostra Presidenza della Repubblica è di non incarnare, né partecipare, nessuno dei tre poteri fondamentali: legislativo, esecutivo e giudiziario. E’ un non potere, che esercita il suo ruolo nel mantenere l’equilibrio. I diversi Presidenti impostano una condotta più o meno severa. Il meccanismo si guasta quando cede l’equilibrio nel gestire l’equilibrio. Non è un gioco di parole: se il Quirinale si limita ad ammonire i magistrati, ma tira mazzate contro il governo, se esalta il ruolo del Parlamento, ma, nel chiedere che le riforme siano largamente condivise, dimentica di aggiungere che, in democrazia, è a maggioranza che si decide, va a finire che entra nel gioco politico. Napolitano è caduto in questo (grave) errore, complice la latitanza dell’opposizione. Con il triste risultato di soddisfare poco gli estremisti e finire ostaggio di ventriloqui che hanno una consolidata tradizione nel far dire agli altri quel che loro pensano.

Non è un bel quadro. Oltre tutto, per non subirlo, Berlusconi lo alimenta, segnalando responsabilità esterne al governo e nascondendo dietro quelle le insufficienze dell’esecutivo. Eppure, una cosa è assolutamente chiara: la legislatura si consumerà nel nulla se le riforme istituzionali non si gioveranno di una tregua. E la tregua non può che essere costruita sul rispetto governativo delle prerogative presidenziali, anche quando non ne condivida il merito, e sulla prudenza presidenziale, che eviti al Colle più alto di divenire parte politica. Entrambe, per ora, non si sono dimostrati all’altezza del compito.

Quando scrissi contro il rinvio dell’arbitrato, in materia di lavoro, in giorni in cui piovevano petali di rose e si affettava la falsa furbizia di un pessimo cinismo, che interpretava la firma presidenziale sul legittimo impedimento come la sigla della nuova concordia, lo feci perché le elezioni regionali avevano appena riconfermato la vittoria elettorale di Berlusconi, sicché il Quirinale poteva scegliere se avviare la guerra di posizione o farsi volano e controllore delle riforme. Commise l’errore di scivolare sulla prima ipotesi. Il discorso di Parma è solo la conseguenza. Abbandonarsi alle ripicche, adesso, è infantile, o senile. Ciascuno si assuma le proprie responsabilità per i prossimi tre anni, che possono essere un’opportunità, o una gran perdita di tempo.

Pubblicato da Libero

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