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Tra percezione della gente e dati reali

L'inflazione non esiste, pero' morde i giovani

di Donato Speroni - 06 febbraio 2005

Il dibattito su euro e inflazione sembra un giallo senza il morto, per il semplice fatto che in Italia non c'è inflazione. Un aumento medio dei prezzi del 2,7% nel 2003 e del 2,5% nel 2002 (a fronte di un 2,7% nel 2001, anno precedente all'introduzione della nuova moneta), non può essere definito inflazionistico.

Bella forza, risponderà qualcuno. Questi sono i dati ufficiali, ma non corrispondono alle sensazioni della gente. Per capire come stanno le cose, cerchiamo innanzitutto di mettere un po' d'ordine nelle definizioni. Quando parliamo d'inflazione ci riferiamo comunemente all'aumento dei prezzi al consumo, che l'Istat misura in tre modi diversi: con un indice che rispecchia i consumi dell'intera collettività nazionale (NIC); con un indice tarato sui consumi delle famiglie di operai e impiegati (FOI), che si usa correntemente per assegni divorzili e rivalutazione affitti, e con un indice armonizzato europeo (HICP o IPCA in italiano) che è in realtà redatto con gli stessi criteri del NIC, ma è un po' più povero di informazioni perché esclude alcuni beni e servizi poco confrontabili tra i diversi paesi.

I tre indici si muovono pressoché all'unisono e "sgarrano" tra loro di pochissimi decimali. Perché i consumatori li ritengono così insoddisfacenti? Nessuno può dire che siano manipolati, visto che la raccolta dati è effettuata da migliaia di incaricati comunali. Né che i panieri e le ponderazioni non rispecchino la realtà: sono aggiornati ogni anno tarando le categorie di spesa sulla base dell'indagine annuale sui consumi delle famiglie. Certo, i metodi di rilevazione si possono perfezionare, ma non c'è un esperto il quale sostenga, a livello di proposta tecnica e non di battuta, che un miglioramento delle tecniche porterebbe a dati sostanzialmente diversi. Un'ulteriore conferma proviene dalle società private che rilevano i prezzi della grande distribuzione attraverso i codici a barre dei prodotti: anche per loro i prezzi si sono mossi tra il 2 e il 3% all'anno.

E allora? La prima spiegazione che si può dare è che la percezione della gente è sempre diversa dalle medie ufficiali. Ognuno di noi risente maggiormente di certi consumi (il prezzo del caffè al bar, la benzina, la frutta o la verdura al mercato) e sottovaluta altre spese, come le tariffe aeree, il costo dell'auto o il computer, che pure fanno parte del nostro paniere ma che essendo occasionali o addirittura spalmati su più anni non colpiscono la nostra percezione immediata. Il problema non riguarda soltanto l'Italia. Qualche anno fa, una commissione del Senato americano presieduta dall'economista Michael Boskin arrivò addirittura alla conclusione che l'indice dei prezzi negli Usa sopravvalutava l'inflazione effettiva di oltre l'1% all'anno. Gli indici tra l'altro non tengono conto dei miglioramenti di qualità dei prodotti: rispetto a dieci anni fa i frigoriferi consumano meno corrente, le auto richiedono meno cambi d'olio, i computer a parità di prezzo hanno una memoria assai superiore.

Insomma, lasciamo che gli indici dei prezzi facciano il loro dovere e non pretendiamo di sostituirli con opinioni: misurare l'inflazione sulla base di un sondaggio sarebbe come misurare il prodotto interno lordo sulla base delle sensazioni di ricchezza individuale. Non è una cosa seria; poco credibili sono i centri di ricerca che cercano di avallare questi metodi e le associazioni che usano questi dati come strumento di lotta. Resta però il fatto che la gente "sente" l'inflazione e non è contenta.

In economia le sensazioni possono diventare realtà. Se penso che i prezzi sono aumentati, cercherò anch'io di aumentare il prezzo del mio lavoro. Così, dopo l'introduzione dell'euro, gli economisti preoccupati si sono messi a studiare il fenomeno della percezione d'inflazione e hanno anche elaborato un "out of pocket index" che valuta le variazioni dei prezzi per i beni e servizi che paghiamo abitualmente "dalla tasca", cioé in contanti. Secondo un rapporto pubblicato sul Bollettino mensile della Banca Centrale Europea nell'ottobre 2003, in Europa l'indice "out of pocket" è circa doppio dell'indice armonizzato ufficiale (e quindi sta tra il 3 e il 5 % annuo), mentre l'indice basato sulle percezioni dei consumatori viaggia nella stratosfera, attorno al 50%. Val la pena di sottolineare che i pagamenti in contanti, dai ristoranti al taxi, corrispondono in buona misura a settori poco esposti alla concorrenza internazionale: quelli appunto che hanno approfittato dell'introduzione dell'euro.

I dati ufficiali italiani ed europei dimostrano dunque che l'inflazione come fenomeno macroeconomico non esiste, ma che l'inflazione percepita, stimolata dai consumi in contanti, può diventare un'esca per ulteriori aumenti dei prezzi. Inoltre, l'inesistenza di un rischio inflattivo globale non toglie che per certe categorie l'inflazione esista e morda fortemente sui redditi. L'abitazione, per esempio, incide assai poco nelle medie dell'Istat, perché la maggioranza degli italiani vive in case di proprietà. Questo però non toglie che chi cerca casa in affitto nelle aree metropolitane deve fronteggiare aumenti vertiginosi rispetto ad uno o due anni fa. Nel paniere delle giovani coppie, l'affitto può arrivare al 40% dei consumi. E ancora: l'assicurazione auto conta poco nel paniere ufficiale, perché il suo costo è un saldo tra il costo dei premi ed i rimborsi che vengono erogati alle famiglie: in pratica è il puro costo di intermediazione delle compagnie. Ma questo non toglie che i nuovi assicurati, anche se guidatori virtuosi, paghino cifre altissime: nel loro personale paniere la variazione di questa voce ha una forte incidenza. E i nuovi assicurati sono quasi sempre giovani.

Sarebbe opportuno elaborare panieri più specifici per fasce di reddito, classi di età, aree geografiche diverse. Per esempio l'Istat, forse per dribblare antiche difficoltà politiche e sindacali, ha sempre opposto ostacoli tecnici alla misurazione del livello dei prezzi nelle diverse città: descrive la dinamica inflattiva di mese in mese, ma non fornisce i livelli, cioè non dice mai se la vita costa di più a Napoli o a Trieste e di quanto. Sarebbe il caso di fare uno sforzo anche in questa direzione.

In conclusione, litigare sull'euro non serve. Non serve palleggiarsi responsabilità su un'inflazione che non c'è, col rischio di materializzarla, o piangere sul latte versato di controlli che non sono stati predisposti prima del 2002 o effettuati subito dopo l'avvento della nuova moneta, quando il governo aveva il potere di intervenire. È invece possibile un maggiore sforzo conoscitivo, col concorso della statistica ufficiale, degli esperti, dei rappresentanti dei consumatori. Un'analisi condivisa e non strumentale sarebbe utile ai politici per predisporre misure di sostegno verso le categorie più deboli, il cui paniere di consumi è davvero diventato più costoso.

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