Urge un resetaggio istituzionale
L'indecisione non paga
Bisogna andare oltre l'ideologia del capodi Enrico Cisnetto - 03 ottobre 2011
Ove mai ce ne fosse stato ancora bisogno, l’indecorosa vicenda della successione a Draghi al vertice della Banca d’Italia – che allunga la già infinita lista di motivi di perdita di credibilità del nostro Paese sulla scena europea e mondiale – conferma che abbiamo un gigantesco problema di governance, senza superare il quale non potremo mai uscire dalla spirale del declino in cui siamo finiti.
E per problema di governance s’intende la carenza sia di strumenti adatti, a fronte di questioni sempre più complesse da fronteggiare, a prendere le decisioni migliori e più tempestive che sono necessarie, sia di meccanismi di selezione della classe dirigente, oggi del tutto inadatta e impreparata. Nello specifico di Bankitalia, la legge parla chiaro: il presidente del consiglio deve, di concerto con il consiglio dei ministri, indicare un nome al consiglio superiore della banca centrale stessa, il quale esprime un parere obbligatorio ma non vincolante, e successivamente il nome deve ricevere la ratifica del presidente della Repubblica. Ora, è chiaro anche ai ciechi che il premier – per debolezza personale e per condizione politica subordinata – non ha esercitato il diritto-dovere che la legge gli affida, ma ha aperto, pubblicamente, una caotica fase di consultazioni, condita di passaggi a dir poco degradanti come l’improvvida pregiudiziale etnica manifestata dal ministro (sic) Bossi, che finirà col rendere un cattivo servigio a chiunque dei candidati sia scelto. Siamo dunque di fronte ad un caso in cui non manca lo strumento di governo, ma l’uomo giusto che sappia usarlo.
In altri casi, invece, sono le procedure o addirittura le istituzioni stesse che non funzionano, oppure che con la mutata realtà hanno perso l’antica efficacia. Si tratta quindi di fare delle riforme che aiutino il processo decisionale a svolgersi nel migliore dei modi. Si va dai regolamenti parlamentari da riscrivere al bicameralismo da superare, per non parlare della semplificazione cui la farraginosa (e costosa) macchina del decentramento deve essere sottoposta per scrollarsi di dosso tutte le tossine del “federalismo realizzato” voluto dalla Lega. Un resetaggio istituzionale che sarebbe opportuno realizzare nel modo più proprio di una revisione costituzionale profonda, quello di un’Assemblea Costituente.
Ma siccome un processo (ri)costituente non può che essere messo in campo dal parlamento, torniamo al punto di partenza: la classe dirigente. Della sua (infima) qualità gli italiani si sono accorti da tempo, ma in mancanza di proposte costruttive che sappiano incanalare i sentimenti di ripulsa e protesta, per ora la reazione si è solo tradotta nel dar fiato alle trombe dell’anti-politica. Invece, si tratta di andare ben oltre lo sdegno verso la casta, che spesso assume anche pericolosi connotati qualunquistici, e di capire che nella stagione che abbiamo chiamato Seconda Repubblica si sono create abitudini ben più perniciose dell’uso improprio di un’auto blu o privilegi simili. Una di queste, tra le più letali, è stata l’idea – non a caso nata proprio con l’altra grande crisi di fiducia verso la classe dirigente, quella del 1992 che ha poi posto fine alla Prima Repubblica – di affidare le sorti del Paese a un “capo”.
Non sia ingannevole la retorica anti-berlusconiana che nel tempo ha coniato slogan come “l’unto del Signore” o “l’uomo solo al comando”: non si tratta solo del Cavaliere, ma di un intero ceto politico che ha illuso se stesso e gli italiani che dai pur difettosi partiti fosse opportuno passare ai leader carismatici, prodotti televisivi di grande appeal sul mercato del consenso su cui caricare tutte le responsabilità e far convergere tutte le attese. Leader che a loro volta, inevitabilmente, hanno creato intorno a loro un ceto politico formato con un duplice criterio: da un lato di cooptazione, basata sulla fedeltà al capo, e dall’altro di vendibilità, basata sulla notorietà (da qui la candidatura di personaggi dello spettacolo e dello sport, o comunque di facile popolarità). Insomma, tutto meno che la qualità e il merito. Sia chiaro, si è trattato di una deriva che ha riguardato un po’ tutte le democrazie occidentali, ma che in Italia ha raggiunto livelli ineguagliati soprattutto per la deriva farsesca che il fenomeno ha preso.
Dobbiamo dunque liberarci della “ideologia del capo”. Del caso italiano, che rigaurda tanto la destra quanto la sinistra, ne ha scritto mirabilmente sul Corriere della Sera il presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida: “abbiamo bisogno di partiti che discutano e decidano, non solo che abbiano un capo; di elezioni vere, non di un concorso di bellezza tra leader; di alternanza o di convergenze politiche a seconda delle circostanze, non di un bipolarismo coatto”.
Ma un fenomeno di ripulsa è in atto un po’ ovunque. La crisi finanziaria mondiale, prima, e quella più specificatamente europea che è in corso, hanno fatto capire ai cittadini disorientati che l’estrema complessità dei problemi da risolvere, e la loro interconnessione planetaria dovuta alla globalizzazione, è ben più grande di un uomo, per quanto capace e determinato (figuriamoci quando non lo è).
Il declino evidente di Obama e Sarkozy, la percezione della pericolosità di Putin, le difficoltà della Merkel, che pure corrisponde meno di tutti in Europa alla figura del leader carismatico, ci dicono che è venuto il momento della svolta.
Anche in Italia. Da noi, di fronte all’impotente parlamento dei nominati e al terribile vuoto di governo, si rivaluta il voto di preferenza, si ricomincia a capire il valore dei partiti e delle culture politiche, si torna a pensare che la squadra sia più importante del solista. Se si vede che di fronte alla necessità di nominare presto e senza sbavature il nuovo governatore della Banca d’Italia – non fosse altro perché il momento è a dir poco delicato – il premier tentenna e subisce il mercato delle vacche, il signor Rossi capisce non solo che Berlusconi non corrisponde affatto all’icona del “ghe pensi mi”, ma anche che il modello leaderistico da lui interpretato e imposto (per debolezza altrui) a tutto il sistema politico – ricordiamoci, per esempio, che nel caso del Pd è nato prima il segretario del partito – non funziona.
Da qui a poterci liberare di quella scandalosa violazione della Costituzione che è rappresentata dal mettere il nome del “candidato premier” sulla scheda e pretendere di conseguenza che con quel sistema siano i cittadini a votare direttamente il presidente del consiglio e non, come dice la Carta, che sia indicato dal Capo dello Stato e votato dal parlamento, il passo è breve. E decisivo. Non perché sia esecrabile una repubblica presidenziale, ma perché se la si vuole occorre costruirla con tutti i criteri di bilanciamento dei poteri che quel tipo di sistema politico-istituzionale richiede.
E per problema di governance s’intende la carenza sia di strumenti adatti, a fronte di questioni sempre più complesse da fronteggiare, a prendere le decisioni migliori e più tempestive che sono necessarie, sia di meccanismi di selezione della classe dirigente, oggi del tutto inadatta e impreparata. Nello specifico di Bankitalia, la legge parla chiaro: il presidente del consiglio deve, di concerto con il consiglio dei ministri, indicare un nome al consiglio superiore della banca centrale stessa, il quale esprime un parere obbligatorio ma non vincolante, e successivamente il nome deve ricevere la ratifica del presidente della Repubblica. Ora, è chiaro anche ai ciechi che il premier – per debolezza personale e per condizione politica subordinata – non ha esercitato il diritto-dovere che la legge gli affida, ma ha aperto, pubblicamente, una caotica fase di consultazioni, condita di passaggi a dir poco degradanti come l’improvvida pregiudiziale etnica manifestata dal ministro (sic) Bossi, che finirà col rendere un cattivo servigio a chiunque dei candidati sia scelto. Siamo dunque di fronte ad un caso in cui non manca lo strumento di governo, ma l’uomo giusto che sappia usarlo.
In altri casi, invece, sono le procedure o addirittura le istituzioni stesse che non funzionano, oppure che con la mutata realtà hanno perso l’antica efficacia. Si tratta quindi di fare delle riforme che aiutino il processo decisionale a svolgersi nel migliore dei modi. Si va dai regolamenti parlamentari da riscrivere al bicameralismo da superare, per non parlare della semplificazione cui la farraginosa (e costosa) macchina del decentramento deve essere sottoposta per scrollarsi di dosso tutte le tossine del “federalismo realizzato” voluto dalla Lega. Un resetaggio istituzionale che sarebbe opportuno realizzare nel modo più proprio di una revisione costituzionale profonda, quello di un’Assemblea Costituente.
Ma siccome un processo (ri)costituente non può che essere messo in campo dal parlamento, torniamo al punto di partenza: la classe dirigente. Della sua (infima) qualità gli italiani si sono accorti da tempo, ma in mancanza di proposte costruttive che sappiano incanalare i sentimenti di ripulsa e protesta, per ora la reazione si è solo tradotta nel dar fiato alle trombe dell’anti-politica. Invece, si tratta di andare ben oltre lo sdegno verso la casta, che spesso assume anche pericolosi connotati qualunquistici, e di capire che nella stagione che abbiamo chiamato Seconda Repubblica si sono create abitudini ben più perniciose dell’uso improprio di un’auto blu o privilegi simili. Una di queste, tra le più letali, è stata l’idea – non a caso nata proprio con l’altra grande crisi di fiducia verso la classe dirigente, quella del 1992 che ha poi posto fine alla Prima Repubblica – di affidare le sorti del Paese a un “capo”.
Non sia ingannevole la retorica anti-berlusconiana che nel tempo ha coniato slogan come “l’unto del Signore” o “l’uomo solo al comando”: non si tratta solo del Cavaliere, ma di un intero ceto politico che ha illuso se stesso e gli italiani che dai pur difettosi partiti fosse opportuno passare ai leader carismatici, prodotti televisivi di grande appeal sul mercato del consenso su cui caricare tutte le responsabilità e far convergere tutte le attese. Leader che a loro volta, inevitabilmente, hanno creato intorno a loro un ceto politico formato con un duplice criterio: da un lato di cooptazione, basata sulla fedeltà al capo, e dall’altro di vendibilità, basata sulla notorietà (da qui la candidatura di personaggi dello spettacolo e dello sport, o comunque di facile popolarità). Insomma, tutto meno che la qualità e il merito. Sia chiaro, si è trattato di una deriva che ha riguardato un po’ tutte le democrazie occidentali, ma che in Italia ha raggiunto livelli ineguagliati soprattutto per la deriva farsesca che il fenomeno ha preso.
Dobbiamo dunque liberarci della “ideologia del capo”. Del caso italiano, che rigaurda tanto la destra quanto la sinistra, ne ha scritto mirabilmente sul Corriere della Sera il presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida: “abbiamo bisogno di partiti che discutano e decidano, non solo che abbiano un capo; di elezioni vere, non di un concorso di bellezza tra leader; di alternanza o di convergenze politiche a seconda delle circostanze, non di un bipolarismo coatto”.
Ma un fenomeno di ripulsa è in atto un po’ ovunque. La crisi finanziaria mondiale, prima, e quella più specificatamente europea che è in corso, hanno fatto capire ai cittadini disorientati che l’estrema complessità dei problemi da risolvere, e la loro interconnessione planetaria dovuta alla globalizzazione, è ben più grande di un uomo, per quanto capace e determinato (figuriamoci quando non lo è).
Il declino evidente di Obama e Sarkozy, la percezione della pericolosità di Putin, le difficoltà della Merkel, che pure corrisponde meno di tutti in Europa alla figura del leader carismatico, ci dicono che è venuto il momento della svolta.
Anche in Italia. Da noi, di fronte all’impotente parlamento dei nominati e al terribile vuoto di governo, si rivaluta il voto di preferenza, si ricomincia a capire il valore dei partiti e delle culture politiche, si torna a pensare che la squadra sia più importante del solista. Se si vede che di fronte alla necessità di nominare presto e senza sbavature il nuovo governatore della Banca d’Italia – non fosse altro perché il momento è a dir poco delicato – il premier tentenna e subisce il mercato delle vacche, il signor Rossi capisce non solo che Berlusconi non corrisponde affatto all’icona del “ghe pensi mi”, ma anche che il modello leaderistico da lui interpretato e imposto (per debolezza altrui) a tutto il sistema politico – ricordiamoci, per esempio, che nel caso del Pd è nato prima il segretario del partito – non funziona.
Da qui a poterci liberare di quella scandalosa violazione della Costituzione che è rappresentata dal mettere il nome del “candidato premier” sulla scheda e pretendere di conseguenza che con quel sistema siano i cittadini a votare direttamente il presidente del consiglio e non, come dice la Carta, che sia indicato dal Capo dello Stato e votato dal parlamento, il passo è breve. E decisivo. Non perché sia esecrabile una repubblica presidenziale, ma perché se la si vuole occorre costruirla con tutti i criteri di bilanciamento dei poteri che quel tipo di sistema politico-istituzionale richiede.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.