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Public Policy

Una politica complessiva

Liberalizzando

Per rendere efficaci le liberalizzazioni bisogna prendere in considerazione l'intero mercato

di Davide Giacalone - 06 gennaio 2012

Si cerca il sentiero dello sviluppo nel mentre ci addentriamo nel parco della recessione. Sappiamo che di sole tasse si muore, ma non riusciamo ad agguantare la terapia alternativa. Cercando di dare un senso all’attività di governo, che non sia la mera esecuzione di un’impossibile esazione, sia i ministri che gli osservatori (la politica no, quella s’è dissolta) parlano di liberalizzazioni. Io stesso lo faccio, ora attirando le ire dei tassisti, ora quelle degli avvocati, o altri ancora. Ma, al di là delle non encomiabili difese corporative occorre aver chiaro che la liberalizzazione non può essere un insieme di provvedimenti particolari, ma una politica complessiva. Un paradigma culturale. Altrimenti diventa solo il tiro a bersaglio sugli uni o sugli altri.

I tassisti che lamentano di avere pagato diecine e talora centinaia di migliaia di euro una licenza, sicché dalla liberalizzazione risulterebbero rovinati, dimenticano di aggiungere che quel commercio è possibile perché ci sono i privati che vendono, quindi l’affare è privato, non pubblico. Essi pagano in ragione del sistema chiuso, di cui poi diventano protettori perché hanno pagato. E’ meglio aprire le porte alla libertà e alla competizione. Però, attenti, non è che liberalizzando le licenze il mercato fa un balzo in avanti e il prodotto interno cresce. Non prendiamoci in giro. Né si favorisce la nostra immagine nel mondo, laddove, al contrario, i nostri tassisti sono professionalmente capaci (non è così consueto, nel mondo) e se qualcosa ci nuoce è l’assalto degli abusivi quando esci da certe stazioni. La stessa cosa vale per gli avvocati: far cadere le tariffe minime, aprire alle società di capitali, consentire la pubblicità sono tutti sistemi che premiano i giovani e la qualità. Ma non è che, da sole, queste scelte possono rilanciare un Paese. Potrei continuare con gli esempi, allargando il ragionamento al ruolo delle lobbies in una democrazia (lo ha fatto assai bene Alessandro De Nicola, su la Repubblica, un appunto, però, va mosso a chi ha corredato il suo articolo, visto che fra gli ordini professionali s’è dimenticato di mettere, guarda caso, quello dei giornalisti).

Le liberalizzazioni, per essere efficaci, devono riguardare l’intero mercato, talché ciascuno dei soggetti che le subiscono (perché hanno un costo) possa anche approfittarne (visto che portano vantaggi). Altrimenti restano provvedimenti asimmetrici ed episodici, buoni per la propaganda e inutili per tutto il resto. Liberalizzare significa credere che i cittadini siano adulti e il mercato capace di selezionare i migliori, espellendo i praticoni. Ciò comporta un robusto rafforzamento della giustizia e un drastico ridimensionamento, fino alla cancellazione, delle tante presunte autorità preposte al controllo preventivo. Nate dal presupposto che il cittadino sia minorenne, se non minorato, e che se lo Stato non lo assiste quello si fa fregare. Invece si deve metterlo in condizioni di scegliere, il che significa, ad esempio, non tempestarlo di telefonate fatte da due aziende, una di stato e l’altra municipale, che se lo contendono quale cliente per l’energia elettrica. Che razza di concorrenza è? Per liberalizzare con successo occorre accedere al modello culturale che rende liberi di fare tutto quello che non è proibito. Mentre oggi si rischia a fare qualsiasi cosa non sia regolata e preventivamente autorizzata. Le corporazioni sono una brutta cosa, ma la dipendenza dalla burocrazia è peggio. Le corporazioni talora surrogano il ruolo della burocrazia, assorbendola per potenza, una sana politica liberalizzatrice sgancia il mercato dalla morsa di quelle senza lasciarlo precipitare nelle sabbie mobili del bollo e del permesso. Poi, se qualcuno sbaglia deve pagare.

E’ giusto, ma chi è accusato deve in fretta essere liberato dal sospetto, o noi tutti essere liberati da lui. Altrimenti si torna a capo, facendo false liberalizzazioni che appassiscono nell’acquitrino di uno Stato pervasivo, onnipresente e impotente. Per avere frutti dalla liberalizzazione occorre avere un sistema bancario che non sembri l’articolazione variopinta di un’unica centrale, oramai non più disposta a prestare soldi, se non a condizione che se ne versi il doppio a garanzia. E ci si ricordi che prima di prendere un taxi all’aeroporto di Linate o Fiumicino s’è dovuto volare in una tratta che un tempo era offerta in concorrenza e ora, per salvare l’italianità di due compagnie, s’è italianamente riportata al monopolio.

Non ha molto senso combattere a terra quel che si favorisce per aria. Il sentiero delle liberalizzazioni porta lontano ed è la via giusta. Non voglio essere frainteso: ciascuna è utile. Ma per favorire lo sviluppo se ne devono fare tante, vere, possibilmente tutte.

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