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Crisi economica

L'export da solo non basta

Va bene agire su prezzi e costi, ma alla nostra industria mancano anche qualità, prodotti e servizi

di Enrico Cisnetto - 19 ottobre 2012

Non solo domanda. Nello (scarso) dibattito su come favorire lo sviluppo, e come ipoteca sulla trattativa in corso sulla produttività, si affaccia finalmente il dimenticato problema dell’offerta. Cioè delle caratteristiche del tessuto produttivo italiano, e dunque qualità. A mettere i piedi nel piatto è un bocconiano d’altro stile come Severino Salvemini, con un ottimo intervento sul Corriere della Sera di ieri. La sua tesi, che è anche la mia, è riassumibile così: finora nell’immaginare la ripresa si è pensato che occorresse agire solo sui consumi, tagliando tasse o abbassando i prezzi, mentre è necessario intervenire anche e soprattutto dal lato della qualità e del costo dei prodotti e dei servizi offerti. Il fatto è che in buona misura sono gli stessi imprenditori ad essere refrattari ad un’analisi autocritica (dimensione, capitalizzazione, manager, internazionalizzazione, ecc.), visto che preferiscono assumere i “vincoli esterni” (burocrazia, giustizia, credito, tasse, costo del lavoro, ecc.) come unici fattori castranti dello sviluppo delle loro aziende.

Il caso Fiat è emblematico: mai sentito Marchionne dire che c’è, non dico solo (perché non sarebbe vero), ma almeno anche un problema di mancanza di nuovi modelli e di qualità del prodotto. E quando i “vincoli esterni”, pur presenti e pesanti, diventano un alibi, ecco che gli investimenti crollano, le nuove iniziative languono, la linea d’orizzonte del management diventa il brevissimo periodo. Salvemini parla di “comportamenti tardivi” delle imprese italiane rispetto alle concorrenti: non c’è dubbio che sia un motivo centrale di perdita di competitività, l’altra faccia della medaglia dell’impasse italico che negli ultimi due decenni ha significato prima crescita lenta, poi crescita zero e infine recessione.

Come rimediare? Fin qui c’è stata un’unica risposta: l’export. In effetti, c’è un pezzo della nostra industria tutto proiettato sui mercati internazionali che non solo ha superato la crisi, ma in certi casi neppure l’ha sentita. Nell’alimentare, per esempio, segnalo un’azienda che vale la pena di scoprire: Pasta Zara. Non ha un marchio molto conosciuto come tante altre del settore anche decisamente più piccole, ma è il secondo produttore nazionale e il primo esportatore di pasta italiana nel mondo, perché il 95% dei suoi 200 milioni di fatturato li fa portando i prodotti rigorosamente made in Italia in oltre 100 paesi. E anche in settori a più alto contenuto, come la meccanica e in particolare quello delle macchine per l’automazione, il made in Italy si sta affermando nel mondo.

Peccato, però, che le nostre esportazioni valgano complessivamente 370 miliardi, il 25% del pil. Un numero che, pur essendo in buona crescita nonostante la crisi – ad agosto l’incremento tendenziale è stato dell’8,4%, mentre la propensione all’export, misurata come rapporto tra esportazioni di beni e servizi e pil a prezzi costanti, viaggia a +28,4% – purtroppo è relativamente piccolo per poter reggere l’intero sistema economico.

Insomma, non basta. Intanto perché quel fatturato estero fa sì capo a una moltitudine di imprese, oltre 200 mila, ma la metà è fatto da meno di un migliaio di aziende che superano i 50 milioni. Per cui si tratta di piccole piccolissime realtà che mediamente esportano poche migliaia di euro. Nella competizione globale, possiamo costruire la nostra posizione di forza su una realtà così polverizzata? In secondo luogo, il restante 75% del pil, composto dal manifatturiero che non esporta – e dunque destinato a soccombere – e da un terziario di cui una consistente fetta è pubblica amministrazione, è subordinato ad un quadro di consumi interni che per la prima volta dal dopoguerra vedrà un arretramento superiore alla contrazione della ricchezza prodotta. Come dimostra la forte contrazione delle importazioni, grazie alla quale dopo molti anni la bilancia commerciale sta in equilibrio.

Inoltre, un’economia così squilibrata genera conflitti nel mondo imprenditoriale, tra chi vuole che le poche risorse a disposizione siano spese per spingere l’export che tira – e la nuova Ice voluta da Passera, il tavolo di coordinamento voluto da Farnesina e Sviluppo economico, vanno in questa giusta direzione – e chi giocando solo in casa, cerca invece sussidi di tutti i tipi per salvarsi. E di “guerre dei poveri” certo non si sente il bisogno. Allora? L’unica ricetta è tornare a fare politica industriale. Difendere le aziende strategiche (che errore sarebbe cedere i gioielli di Finmeccanica, a cominciare da Ansaldo Energia), indurre la concentrazione per accrescere la dimensione media, aiutare l’export e rassegnarsi a tarare il mercato interno su consumi che giocoforza potranno tornare come prima solo dopo aver riavviato il motore dello sviluppo. Prima l’offerta e poi la domanda: ecco una regola d’oro da inserire nell’agenda Monti.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.