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Speriamo che questa penosa fiction finisca presto

Lettera aperta al direttore del Foglio

La “linea Ferrara” del premier è durata lo spazio di un mattino

di Enrico Cisnetto - 07 febbraio 2011

Era scritto. La “linea Ferrara” del premier è durata lo spazio di un mattino. La colpa non è certo del direttore del Foglio – che saggiamente ha invitato Berlusconi a tornare alla politica (anche se “tornare” appare parola fuori luogo) per il bene suo e del Paese – ma di una situazione ormai troppo compromessa perché ci fossero, e ci siano, margini di recupero.

E la botta della decisione del Quirinale di dichiarare inammissibile il decreto sul federalismo municipale – varato dal governo pochi minuti dopo che la commissione bicamerale aveva, con il pareggio, fatto cadere il provvedimento – ha inevitabilmente reso ancor più difficile per tutti battere la strada della ragionevolezza. La logica della lettera – “apocrifa” – mandata al Corriere, in cui Berlusconi chiedeva la disponibilità delle opposizioni, e del Pd in particolare, ad un patto per il rilancio dell’economia, e il lodevole tentativo di indurre il Cavaliere a mettere da parte il “caso Ruby” e la relativa polemica con i magistrati, sono stati spazzati via in poche ore, nonostante che giovedì la maggioranza abbia serrato le fila portando a casa il voto contrario alla richiesta della Procura di Milano di perquisizione degli uffici privati di Berlusconi nell’ambito dell’inchiesta bunga-bunga.

Perché nel giro di un giorno si è passati dal sottoscrivere le parole di Napolitano sulla necessità di stemperare i toni alla scelta – per Berlusconi politicamente obbligata, visto il ruolo giocato dalla Lega, ma non per questo meno dirompente – di trasformare in decreto la proposta non approvata in bicamerale. Uno schiaffo “politico” al Parlamento, come ha subito fatto notare il presidente emerito della Corte Costituzionale Capotosti, ma anche un errore giuridico-istituzionale, sia perché il Capo dello Stato si è trovato a dover firmare – e il dpr reca la sua firma, non la controfirma, che in qualche modo è quella del presidente del Consiglio – senza averne avuto adeguata informazione, sia perché non vi erano i presupposti necessari in mancanza di quel passaggio parlamentare di ora non a caso la maggioranza parla per metterci una pezza. Come se non bastasse, il premier si è nuovamente lasciato andare ad un (inutile) attacco alla magistratura, e per di più in una sede certo non idonea a simili sfoghi come quella del vertice europeo cui ha partecipato ieri.

Ma il Cav, come lo stesso Ferrara ama chiamarlo, è fatto come è fatto, e il mio amico Giuliano lo sa bene. Ed era logico attendersi che le sue “aperture”, peraltro tardive, sarebbero svanite come neve al sole. Proprio come accadde nel 2009 quando dopo tanti dinieghi si decise a celebrare il 25 aprile (lo fece nell’Abruzzo del terremoto) con un discorso che indusse persino Eugenio Scalfari ad elogiarlo. Ebbene quello che fu ribattezzato il “miracolo di Onna” durò neppure una settimana, poi, anche per colpa di una sinistra vittima dell’antiberlusconismo, il bipolarismo armato riprese il sopravvento e tutto tornò come prima. Ora, a maggior ragione dopo i veleni sulla vita privata del premier, era impensabile che il “miracolo Ferrara” potesse durare più di qualche ora. E, infatti, così è stato.

E adesso? Il passaggio sul federalismo ha confermato, ove mai ce ne fosse stato bisogno, che il pallino è in mano alla Lega. O meglio, che tutta la scena politica è occupata dal rapporto Berlusconi-Bossi. E’ quella l’unica cosa che conta, lo snodo vero. Il resto è contorno (e di questo, tutti gli altri che fanno il “resto”, dovrebbero interrogarsi). E cosa dice il barometro che misura l’andamento di quel rapporto? Sostanzialmente due cose. La prima: il capo della Lega ha scelto la linea della “vicinanza” a Berlusconi. Non per convinzione, e tantomeno per tener fede al patto che da tempo li unisce, ma per convenienza elettorale.

Bossi, infatti, pensa – ed è difficile dargli torto – che la Lega possa fare il pieno di voti pescando nel bacino del Pdl tra i delusi dal Cavaliere, ma sa anche che ciò può avvenire solo a patto che si comporti lealmente (“non possiamo fare come Fini”, è il leit-motiv dei leghisti). Dunque, nella circostanza Bossi ha portato a casa la non a caso sbandieratissima approvazione del federalismo – lasciando il cerino acceso dei rapporti con il Colle in mano al premier, anzi facendo poi lui il pompiere non appena Napolitano ha pronunciato il suo niet – e nello stesso tempo ha evitato di cogliere l’occasione per far saltare tutto e andare alle elezioni. Che però sono il suo obiettivo primario e non troppo differibile.

Anche perché sente arrivare dalla base del partito un mugugno sempre più forte, che segnala una stanchezza del suo elettorato tradizionale per quel Berlusconi che se la spassa con le ragazze e per la permanenza del Carroccio ormai da troppo tempo nel cuore della “Roma ladrona”. Umori su cui ha fatto affidamento il ministro Maroni nell’esporsi a favore del voto subito fino al punto di entrare in rotta di collisione con il suo collega Calderoli. Dunque, Bossi ora porta a casa il federalismo municipale e conferma l’immagine di chi non tradisce, ma subito dopo dovrà trovare l’occasione giusta per rompere.

Anche perché il leader della Lega sa che dopo la legge ci sarà il referendum costituzionale approvativo, e a quello deve arrivarci avendo conquistato un perimetro più largo del solo centro-destra per non si ripeta la fregatura del 2006.

La seconda cosa che emerge dalle vicende delle ultime ore riguarda la posizione di Berlusconi. Che, da un lato, si è rafforzata con i 315 voti ottenuti sul “caso Ruby” (316 se ci fosse stato anche lui in aula), ma che dall’altro è tornata a farsi complicata per via dello scontro con il Quirinale.

A cui molti costituzionalisti e politologi – si veda Stefano Passigli ieri sulla Stampa – attribuiscono la facoltà di poter sciogliere le camere anche in assenza delle dimissioni del governo. Non so se sia così, e comunque sconsiglierei a Napolitano di prendere una decisione del genere. Tuttavia, per il premier il combinato disposto di essere in tensione con il Quirinale, nel mirino dei magistrati, esposto al ridicolo sulla scena internazionale e perennemente sotto ricatto politico da parte della Lega, certo non lo lascia tranquillo. E aver abbandonato subito il “lodo Ferrara” non è stata una buona scelta, ancorché inevitabile.

Ma, al di là di tutto questo, la vera partita si gioca ancora una volta sul terreno dell’economia. Dove Berlusconi è preso in una morsa. Da un lato, l’Europa ormai decisa a varare a marzo un “patto per la competitività” voluto dal duo Merkel-Sarkozy che non potrà che imporre all’Italia quelle riforme strutturali che non è mai stata capace di fare.

E non si tratta precisamente di quelle liberiste evocate da chi ha nostalgia del Cavaliere del 1994 quando raccontava la favola della “rivoluzione liberale”, ma dure scelte di riduzione di spesa pubblica e debito non proprio a costo zero dal punto di vista elettorale. Scelte, cioè, che richiedono una convergenza politica stile “grande coalizione” – è stato così in Germania, dove sono già state fatte ed è il motivo della sua attuale crescita eccezionale, figuriamoci in Italia – di cui oggi non si vedono le premesse e che comunque non potrebbe prescindere dall’uscita di scena di Berlusconi.

Dall’altro lato, il premier è stretto nella morsa di una congiuntura che rende non solo impossibile, ma ridicola, la sua annunciata intenzione di dare al Paese una strategia che in cinque anni (?) lo porti ad una crescita del 3-4%.

Purtroppo, non siamo ancora all’ultima puntata di questa penosa fiction chiamata Seconda Repubblica. Speriamo solo che manchi poco.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.