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Per evitare l'abisso quelli davvero responsabili devono sfiduciare il governo

di La redazione - 17 settembre 2011

L’Italia è sull’orlo dell’abisso, rischia di precipitare in una crisi senza precedenti, ma si occupa d’altro. Il primo ad essere inconsapevole dei pericoli che incombono sul Paese è il presidente del Consiglio, che fin dal primo giorno di questa legislatura ha rinunciato – ove mai ne fosse stato capace – a governare. Che poi il motivo di questa défaillance sia l’impegno profuso prima a organizzare baccanali e poi a difendersi dalle conseguenze, oppure altro, poco importa. Ciò che conta è che Berlusconi non ha evitato, anzi, che l’Italia finisse nella condizione di correre il rischio di un default di tipo greco, punto finale di un lento ma micidiale declino iniziato ormai due decenni fa. Ma il Cavaliere impermeabile a tutto non è l’unico a non capire e prevenire la crisi, e oggi a non avere idea di come uscirne.

È, questa, la condizione di tutta la classe politica e di gran parte della classe dirigente, salvo poche eccezioni. Se qualcuno ordina 100 mila intercettazioni solo per scoprire con chi si accompagni il premier, o se finiscono sui giornali stralci di telefonate in modo arbitrario, aprendo casi giudiziario-mediatici cui vengono dedicate pagine intere, sarà difficile che il Paese si possa concentrare a capire cosa succede sui mercati finanziari e a discutere delle necessarie contromisure. Dobbiamo aspettare il dowgrade di Moody’s – è nell’aria che voglia farci scendere di un gradino nella sua scala di affidabilità – per capire, per esempio, che la manovra è già bruciata dall’aumento degli oneri passivi e dalla pesante caduta della crescita del pil rispetto alle previsioni del governo?

A furia di parlar d’altro, diventa difficile dire agli italiani, di punto in bianco, che rischiamo di fare la fine della Grecia e che di conseguenza bisogna stringere la cinghia. Se c’è un errore che in questi anni scellerati è stato commesso un po’ da tutti, anche se in questo Berlusconi è stato insuperabile, è quello di non dire la verità al Paese. Di far finta – o peggio, di non sapere, per via di una crassa ignoranza – che le cose stavano diversamente da come le si raccontava, per via di quella maledetta abitudine di definire pessimisti e disfattisti i realisti, di pensare che fosse elettoralmente più remunerativo dipingere lo stato delle cose sempre e comunque roseo. Sta di fatto che ora ci troviamo sul ciglio del precipizio e dobbiamo cercare con tutte le nostre forze di non caderci dentro.

Le dimissioni di questo governo e la fine politica di Berlusconi sono la condizione prima, anche se non l’unica, perché questo possa accadere. Ma abbiamo constatato nel corso dello svolgimento di questa crisi, che come minimo si è aperta nell’aprile del 2010 con lo scontro Fini-Berlusconi e non si è mai chiusa, che non c’è alcuna possibilità che ciò avvenga spontaneamente. Addosso al premier, a torto e a ragione, sono state versate tanti e tali accuse, di fronte a cui ha fatto spallucce, che sollecitare e attendersi una sua scelta di farsi da parte è perfettamente inutile. Non lo farà mai. E il cinquantesimo voto di fiducia portato a casa sulla manovra, lo conforta in questo orientamento.

E allora? Beh, considerato che non è né praticabile né opportuno un intervento del Capo dello Stato che delegittimi un governo che ha la maggioranza in parlamento, ancorché sia del tutto evidente che non l’abbia più nel Paese, l’unica strada possibile per evitare che lo strazio continui, è quella che un gruppo di “responsabili” – questa volta sì che il titolo sarebbe appropriato – si assuma l’onere di far mancare i voti necessari alla maggioranza per rimanere tale. Qualcuno aveva visto nella nomina di Alfano a segretario del Pdl e nello spazio autonomo acquisito dentro la Lega da Maroni i primi sintomi di un possibile accadimento del genere.

Finora, però, quelle aspettative sono state deluse: in estate si erano aperte delle finestre attraverso cui i due “giovani” avrebbero potuto pensionare i due “vecchi”, Berlusconi e Bossi, ma così non è stato. E ora, per quanto le fibrillazioni siano ancora molto forti, pare difficile che possa accadere oggi ciò che non è successo ieri. Anzi, dalla Lega c’è solo da aspettarsi il peggio, tra le voci di cacciata di qualche sindaco riottoso e l’uscita di Bossi che di fronte alla constatazione che “l’Italia va a picco” ha proposto al Nord di farsi la Padania, fregandosene degli altri.

Tutto, dunque, è nelle mani di chi, nel Pdl, ha la possibilità di mettere insieme un gruppo di parlamentari che si assuma la responsabilità di dire basta. Non dovrebbe essere difficile, visto che in privato si contano a decine i deputati e i senatori che dicono di pensare che Berlusconi sia malato, abbia perso la testa e rappresenti il primo dei problemi. Certo, un conto è dirlo a cena e un altro essere conseguenti in aula, ma è venuto il momento di dire: ora o mai più. Nel senso che quando la crisi spazzerà via tutto e tutti – e allora sarà tardi per l’Italia – non ci sarà più spazio per i ripensamenti. Dunque chi sta tentennando si decida. Detto questo, rimane tutto da costruire il “dopo”. Sia quello più prossimo – governo per andare alle elezioni o a completare la legislatura?

Nuova legge elettorale o no? – sia soprattutto quello post elettorale, cioè con quali partiti, con quale sistema politico e quali regole del gioco facciamo nascere la Terza Repubblica. Ma il fatto che il “dopo” sia indefinito nulla toglie alla necessità di fermare il presente. Ora o mai più.

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