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Public Policy

Berluconi, Grillo e Renzi

Leader senza soldi pubblici

Leaderismo e contributi privati sono in stretta connessione. Stop al finanziamento pubblico e semi-presidenzialismo ne sono la logica conseguenza.

di Marco Dipaola - 20 giugno 2013

L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e la svolta semi-presidenziale della nostra Repubblica sono indissolubilmente legate fra loro.

Si obietterà, dicendo che si tratta di fronti che rispondono ad esigenze diverse: trasparenza e governabilità. In effetti i costi della politica hanno a che fare con l’etica pubblica, mentre le modifiche istituzionali riguardano l’architettura su cui si poggia il nostro Stato. Tutto vero. Si proseguirà sostenendo che il finanziamento pubblico è una misura legata alla contingenza, imposta dagli scandali che accompagnano la gestione politica dei nostri quattrini, mentre quella sul semipresidenzialismo è un’operazione epocale, di ampio respiro, insomma qualcosa da cui non si potrà tornare indietro con mezzucci e trucchetti ( trasformazione del “finanziamento pubblico”, abolito tramite referendum nel ’93, in “rimborsi elettorali”). E allora perché i due argomenti, che stanno prevalendo sui temi – scottanti e più urgenti – riguardanti l’economia, il lavoro e la crescita, rappresentano le due facce della stessa medaglia?

Proviamo ad impostare un ragionamento. Senza il contributo pubblico ai partiti – che tra l’altro è camuffato nell’attuale proposta governativa da un giochetto fiscale attraverso il 2 x 1000 – servirà altra liquidità per organizzare le forme di ricerca del consenso. La politica e la democrazia costano, c’è poco da fare e l’utopia delle campagne elettorali a costo zero si scontra con la capillarità delle istituzioni italiane. Si prenda il caso del Movimento 5 stelle, che dopo un exploit alle politiche, ha dimezzato i risultati alle amministrative. Su base nazionale il monitoraggio di televisioni, web e quotidiani è costante e basta per amplificare ogni gesto, ogni dichiarazione dei candidati, specie se leader con una forza mediatica indiscutibile come Beppe Gillo. Ma per organizzarsi e radicarsi sul territorio c’è bisogno di sedi, persone, luoghi d’incontro fisici e non solo virtuali, e tutto ciò ha inevitabilmente un costo. Diamo per assodato, allora, che in qualche modo i partiti dovranno reperire risorse utili per assolvere al ruolo assegnato loro dalla Costituzione, cioè essere “strumenti con cui i cittadini possono concorrere in modo democratico a determinare la politica nazionale”.

La strada non potrà che essere quella delle donazioni private, che – per fare un paragone – alimentano da sempre la più grande democrazia occidentale, gli Stati Uniti d’America.Tale modello è forse quello più distante dal nostro, basti pensare che negli USA le lobby sono costituzionalmente accettate e giuridicamente regolate. Prenderlo a riferimento comporterebbe una lunga stagione di polemiche contro i grandi interessi nascosti dietro le sovvenzioni private ai partiti e ai loro candidati.

Ecco il legame con il presidenzialismo (o semi che sia). Chi decide di finanziare dall’esterno una campagna elettorale, lo fa perché – nella migliore delle ipotesi – crede in un progetto politico e soprattutto nella persona che lo conduce: la persona, il leader, il candidato Presidente. Immaginiamo l’imprenditore X che pur credendo nella bontà di un progetto politico, giudicasse “perdente” colui o colei che lo sta portando avanti, secondo voi investirebbe solo uno dei suoi preziosi quattrini? D’altronde una dimostrazione recente ce l’abbiamo: Matteo Renzi nelle primarie del Pd. La campagna del sindaco di Firenze non ha avuto un euro di contributo dal Partito Democratico, che invece ha supportato massicciamente quella di Bersani. Due modelli opposti, che identificano esemplarmente le due posizioni in campo: da un lato il leader forte e carismatico, quello su cui puntare, investire (contributo privato), dall’altro la macchina del partito, composta da migliaia di persone, regolarmente stipendiate con i soldi pubblici dei rimborsi elettorali. Eliminando quest’ultima componente diventa chiaramente necessario per i partiti dotarsi di leader forti ed in grado di attrarre su di loro la fiducia dei finanziatori. Non è un caso che il presidenzialismo sia un pallino della destra berlusconiana da decenni. L’accantonamento del modello parlamentare sarebbe la naturale conclusione del processo avviato nel ‘94 proprio da Berlusconi, quello della personalizzazione della politica, della prevalenza della fiducia nel leader rispetto alle idee e ai programmi.

Leaderismo e contributi privati sono, quindi, in stretta connessione. L’abolizione del finanziamento pubblico e la svolta semi-presidenziale ne sono la logica conseguenza. Sicuramente voluta, colpevolmente sottovaluta, la strategia sembra chiara e la visione d’insieme, indipendentemente dalle posizioni che si possono avere sulle rispettive questioni, non pecca certamente di coerenza.

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