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L’acciaio, un mercato sempre più ristretto

Leader globali, nanismo italiano

Mittal lancia l’opa su Arcelor e sfida il mondo della siderurgia.E l’Italia è in pericolo

di Alessandro D'Amato - 31 gennaio 2006

Mittal ha sfidato il mondo dell’acciaio. Ha lanciato a sorpresa un’opa ostile da 18,6 miliardi su Arcelor, proponendo un lussuosissimo premio del 27% sui prezzi di Borsa. La cosa più interessante è che si tratta dell’opa del primo gruppo mondiale sul secondo: l’unione darebbe vita a un colosso da 40 miliardi di capitalizzazione, 320mila dipendenti e un giro d’affari da quasi 70 miliardi di dollari. In parole povere, il 10% della produzione complessiva mondiale, anche se con aree di core business diverse geograficamente: Arcelor forte in Europa occidentale e Brasile, Mittal con più mercato in Nord America, Asia e Africa.

Ma è anche una sfida di nazioni, questa tra Mittal (indiana) e Arcelor (lussemburghese). O, per meglio dire, tra economie emergenti ed aggressive, che macinano profitti sulla base di costi limitati di produzione e anche di gestione, che costa molto meno in Asia che in Europa. L’espansione delle multinazionali dei paesi emergenti e il loro shopping in Europa (dove acquisiscono aziende decotte e poi decidono di spostare le linee produzione nei loro paesi o di rilanciare le società in Italia, come ha fatto in piccolo Videocon con la Necchi prima e la Videocolor poi) sta diventando ormai una regola, e viene fatto molto spesso in settori strategici dove avere player nazionali è fondamentale.

La Commissione europea si è espressa sul possibile matrimonio Mittal-Arcelor, dichiarando con il portavoce del commissario all’Industria, Guenter Verheugen, che non ha nessuna intenzione di tornare “al protezionismo degli anni Settanta, quando i governi difendevano le industrie nazionali”. Il portavoce ha anche spiegato che la Commissione Ue interverrà solo se si porrà “un problema di concorrenza”. E il commissario europeo al Mercato interno, Charlie McCreevy ha spiegato: “Penso che l’Europa sia diventata un giocatore globale in molte aree e penso che molti Stati membri debbano valutare queste vicende tenendone conto”. Tutte queste dichiarazioni, giunte in risposta alle preoccupazioni del ministro delle Finanze francese, Thierry Breton, che aveva manifestato perplessità sull’operazioni, suonano da monito a un mercato europeo che stavolta deve raccogliere la sfida con maturità e senza cercare nel protezionismo la risposta.

E, nemmeno a farlo apposta, in quel piccolo pezzetto dell’Europa che si allontana sempre di più dal continente che si chiama Italia, il settore dell’acciaio è in grave difficoltà. Da anni registra soltanto abbandoni e vendite: Falck ha lasciato alla fine degli anni ’90, di recente il gruppo Lucchini, espressione-simbolo della tradizione siderurgica bresciana e quasi un’istituzione e un esempio di quel nord-est ambizioso ed operoso, ha ceduto la maggioranza dell’azienda ai russi della Severstal. L’unico player globale che rimane è il gruppo Riva, dodicesimo nel mondo, che ha ereditato la siderurgia dell’Ilva dall’elefantone-Iri; per il resto ci sono un gran numero di aziende di famiglia, on una bassa propensione ad effettuare investimenti diretti all’estero e poca voglia di aggregarsi per diventare più grandi e usufruire di economie di scala. Il solito, annoso, irrisolvibile problema italiano: “Piccolo è bello”, anche quando il caro-energia rischia di mangiarsi tutti i profitti. Anche se l’Italia è il secondo produttore di acciaio dell’Ue, e la sua bilancia commerciale nel settore è sorprendentemente in attivo, non c’è per niente da star tranquilli: il pericolo che prima o poi arrivi qualcuno da fuori e si mangi tutto è oggi più che mai reale.

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