Gli istituti di credito cooperativo si salvino
Le Popolari e la governance
Più che una “grande riforma” ci vuole un calibrato ammodernamento.di Enrico Cisnetto - 17 dicembre 2007
Volevano fare la “grande riforma”, di cui non si sentiva alcun bisogno, e non sono neanche riusciti a realizzare quei piccoli aggiustamenti che pure sarebbero utili. Parliamo delle banche popolari, che un mercatismo fanatico e masochista voleva “riformare” – ma sarebbe meglio dire, stravolgere – in nome di non si sa bene quale interesse. Certo non quello del Paese, che dopo il grande risiko – il cui effetto è stato sì quello di darci istituti di dimensioni internazionali, ma anche di forzare un processo di concentrazione che ha rarefatto la concorrenza sul mercato domestico – ora ha assolutamente bisogno di salvaguardare quelle banche del territorio che più e meglio hanno rapporti con gli operatori economici. Ma tant’è, ci hanno provato ad inserire nella legislazione privilegi di rappresentanza a favore di investitori privati e fondi – che non sono propriamente delle dame di carità – a discapito di un sistema che, come avviene in tutta Europa, o si basa sul voto capitario o non ha ragione di esistere. Fortunatamente, dopo oltre un anno di lavoro, la commissione Finanze del Senato ha gettato la spugna, e ora il governo difficilmente avrà il tempo, la voglia e la coesione (Rifondazione e una parte del Pd sono contrari) necessari a trovare quella sintesi che in Parlamento non è stata trovata.
Ma, viene da domandarsi, non avevano di meglio da fare? Il sistema delle popolari, infatti, è una realtà che funziona egregiamente. Conta oltre un milione di soci e più di otto milioni di clienti, ha una distribuzione capillare sul territorio, e maggiormente dove è più alta la presenza di piccole e medie imprese, vanta una quota del mercato creditizio che negli anni è passata dal 10% al 25%. Il settore, poi, non si è sottratto al processo di accorpamento, che nel suo caso ha portato da 80 a 38 le realtà operanti, con le prime cinque che hanno l’82% del segmento e due che sono nella top ten nazionale. Detto questo, sarebbe sciocco nascondersi che un problema nella governance esiste, e che è necessario migliorare la dialettica assembleare e alimentare la partecipazione agli organi decisionali e di controllo. Ma per far questo occorre pragmatismo, come insegna il fatto che a causa dell’opposizione di Germania, Francia e Olanda, la Commissione europea sia stata costretta al dietrofront sulla direttiva “one share one vote”. Come? Per esempio, superando l’ipotesi di un conferimento indiscriminato di deleghe per le assemblee (che violerebbe indirettamente il principio del voto capitario), e puntando su un più realistico numero di dieci a testa – come prevede il Codice civile per le cooperative – facendo recepire il cambiamento negli statuti delle banche. Si può poi lavorare sull’innalzamento del tetto di possesso azionario, oggi fissato allo 0,5%, immaginando magari soglie differenziate tra soci individuali (1-1,5%) e investitori istituzionali (3%). E si può anche pensare ad un accesso ad hoc agli organismi deliberativi per gli investitori istituzionali, a patto però che si passi comunque attraverso l’assemblea dei soci. Infine, si potrebbe immaginare una differenziazione tra banche quotate e non, dando regole più “plurali” alle prime, ma stando attenti a non disincentivare le quotazioni future.
Insomma, quello che ci vuole è un calibrato ammodernamento, non favorire la voracità dei fondi. E’ chiedere troppo?
Ma, viene da domandarsi, non avevano di meglio da fare? Il sistema delle popolari, infatti, è una realtà che funziona egregiamente. Conta oltre un milione di soci e più di otto milioni di clienti, ha una distribuzione capillare sul territorio, e maggiormente dove è più alta la presenza di piccole e medie imprese, vanta una quota del mercato creditizio che negli anni è passata dal 10% al 25%. Il settore, poi, non si è sottratto al processo di accorpamento, che nel suo caso ha portato da 80 a 38 le realtà operanti, con le prime cinque che hanno l’82% del segmento e due che sono nella top ten nazionale. Detto questo, sarebbe sciocco nascondersi che un problema nella governance esiste, e che è necessario migliorare la dialettica assembleare e alimentare la partecipazione agli organi decisionali e di controllo. Ma per far questo occorre pragmatismo, come insegna il fatto che a causa dell’opposizione di Germania, Francia e Olanda, la Commissione europea sia stata costretta al dietrofront sulla direttiva “one share one vote”. Come? Per esempio, superando l’ipotesi di un conferimento indiscriminato di deleghe per le assemblee (che violerebbe indirettamente il principio del voto capitario), e puntando su un più realistico numero di dieci a testa – come prevede il Codice civile per le cooperative – facendo recepire il cambiamento negli statuti delle banche. Si può poi lavorare sull’innalzamento del tetto di possesso azionario, oggi fissato allo 0,5%, immaginando magari soglie differenziate tra soci individuali (1-1,5%) e investitori istituzionali (3%). E si può anche pensare ad un accesso ad hoc agli organismi deliberativi per gli investitori istituzionali, a patto però che si passi comunque attraverso l’assemblea dei soci. Infine, si potrebbe immaginare una differenziazione tra banche quotate e non, dando regole più “plurali” alle prime, ma stando attenti a non disincentivare le quotazioni future.
Insomma, quello che ci vuole è un calibrato ammodernamento, non favorire la voracità dei fondi. E’ chiedere troppo?
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.