La cartina di tornasole post-elettorale
Le lezioni da imparare
Archiviata la tornata elettorale, è giunto il tempo di porre alle dieci riforme con cui cambiare l’Italiadi Davide Giacalone - 30 marzo 2010
Silvio Berlusconi e la Lega hanno vinto le elezioni regionali. La contabilità elettorale può essere complessa e noiosa, specie se condita dalle dichiarazioni di chi parla tanto e dice poco. Ve ne propongo, allora, una lettura diversa, più di lungo periodo e meno schiacciata sullo spoglio.
Al nastro di partenza la situazione era questa: si votava in 13 regioni, di cui 2 amministrate dal centro destra e 11 dal centro sinistra, ma non è questo, ora, che m’interessa. Sempre alla partenza il risultato era scontato in 7 regioni: 2 a maggioranza di centro destra, la Lombardia e il Veneto, e 5 a maggioranza di centro sinistra, l’Emilia Romagna, la Toscana, l’Umbria, le Marche e la Basilicata. Questo secondo gruppo, e, in particolare, l’Emilia Romagna e la Toscana, rappresentano un vero e proprio blocco storico e sociale, con le amministrazioni di sinistra che sono parte stessa di un’economia largamente infiltrata dalla politica e di un tessuto civile nella cui trama si trovano, in posizione dominante, quelle strutture un tempo fiancheggiatrici del partito comunista.
Ebbene, in due regioni del sud, Campania e Calabria, gli elettori hanno ribaltato la maggioranza, consegnandola al centro destra. E’ un dato importante, che non dovrà essere dimenticato nella lettura politica che dei risultati deve essere fatta. Il centro destra, mai dimenticarlo, è oggi al governo certamente in virtù dell’accordo con la Lega, ma grazie ad una maggioranza dei voti raccolti al sud, dove l’influenza di quel partito è inesistente. Siccome saranno in molti a cercare di consolarsi, specie fra gli analisti e i commentatori che non ne azzeccano una neanche per sbaglio, sicché sosterranno che la vittoria leghista al nord sarà un problema per il Pdl, faccio osservare, appunto, che in una democrazia funzionante non è lo spostamento di voti fra alleati, ma il cambio di fronte degli elettori a far la differenza, e che, in ogni caso, il risultato di queste regioni depone in senso opposto.
A queste due aggiungerei la Puglia, dove gli elettori restano, in maggioranza, a favore del centro destra. Prevengo l’obiezione: è vero, Adriana Poli Bortone non era candidata della destra, ma dell’Udc, ma è anche vero che si tratta di un politico nato e cresciuto nel Movimento Sociale, nonché ministro del primo governo Berlusconi. Difficile intrupparla fra gli oppositori del centro destra.
Restano 3 regioni (Lazio, Piemonte e Liguria) che non sono feudi elettorali di questo o di quello, che hanno, nel tempo, cambiato il colore politico delle loro amministrazioni e che, anche questa volta, al di là del risultato finale, si sono trovate in bilico, contendibili. Con due elementi che sarebbe sciocco non considerare: a. l’amministrazione uscente, quindi il vantaggio di avere amministrato un potere reale, era di sinistra; b. nel Lazio, addirittura, mancava, nella provincia più importante, la lista del Pdl. Alla fine, la Liguria è rimasta alla sinistra, il Piemonte ed il Lazio sono andati alla destra.
Messo in ordine il quadro, proviamo a darne una lettura politica. Quattro mi sembrano le lezioni che se ne devono trarre.
1. Sono aumentate le astensioni, che segnalano, prima di tutto, una crisi dell’offerta politica. Nel senso che chi aveva votato da una parte non ha cambiato fronte, ha smesso di andare alle urne. Dovranno tenerne conto, tutti. Inoltre, sono accontentati gli intelligentoni che attribuiscono la crescita delle astensioni all’esistenza delle liste bloccate, salvo il fatto che gli astenuti crescono proprio quando ci sono le preferenze (europee e regionali). Non intendo dire che l’attuale sistema elettorale nazionale sia buono, ma solo che molte critiche sono male indirizzate.
2. Il bipolarismo allarga le sue radici. Gli elettori sono molto più bipolari del sistema politico. Tanto è vero che, anche quando possono, non premiano le forze spurie. Semmai preferiscono quelle che esercitano un ruolo condizionante all’interno di una coalizione, fino al punto, nelle regionali, di potere prenderne la guida, ma, appunto, si tratta di una cosa assai diversa.
3. Il Partito Democratico è in coma, ridotto ad una media potenza regionale che campa sull’eredità sociale del Pci. Se, anziché incontrarsi solo fra di loro, confortandosi a vicenda con battute sciocche e immaginandosi combattenti di una guerra inesistente, provassero a leggere le cose che scriviamo, da anni, avrebbero almeno la consapevolezza che così come sono contano sempre di meno. La politica non consiste nel fare una battuta in una trasmissione televisiva, dove il conduttore ti alza la palla e quasi ti suggerisce le parole, occorre sapere costruire programmi, idee, proposte, e misurarle con il Paese reale. Non per imitarlo e aderirvi, ma per poterlo cambiare senza pensare di farlo tornare indietro. Invece si sono lasciati invadere da politiche giustizialiste e fascistoidi, si sono lasciati corrompere dal linguaggio dell’avversario e hanno fatto crescere fenomeni che, ora, sono coltelli piantati nel fianco: da Antonio Di Pietro a Niki Vendola.
4. Berlusconi vince anche da fermo. Ha fatto due settimane di campagna elettorale, partendo da una situazione compromessa e gettandosi alla difesa di apparati burocratici interni (la faccenda della lista laziale) sostanzialmente indifendibili. Eppure ha vinto, mentre nel resto d’Europa, per non parlare della Francia, le elezioni amministrative hanno punito i governi in carica, che pagano il costo della crisi economica. Ha vinto perché s’è offerto alla battaglia, nella quale ha contato la sua persona, la sua chiamata alla riscossa, la sua indomita volontà di continuare, ma non hanno contato le cose fatte dal governo, che, a due anni dall’insediamento, gode di una salute inferiore a quella di cui lui parla. Ha vinto, ma gli elettori hanno anche mandato due messaggi: sia non votando che votando Lega.
Anche questa tornata elettorale l’abbiamo alle spalle. E’ giunto il tempo di porre mano non alle mille cose da elencare, ma alle dieci riforme con cui cambiare l’Italia. I problemi che incombono sono pesanti, non si potrà scantonarli. Quando si tornerà a votare non basterà giovarsi di un avversario tramortito, si dovrà raccontare agli italiani che cosa la politica ha fatto e può fare per rendere migliore la vita di tutti e concreta la speranza di un futuro migliore.
Pubblicato da Libero
Al nastro di partenza la situazione era questa: si votava in 13 regioni, di cui 2 amministrate dal centro destra e 11 dal centro sinistra, ma non è questo, ora, che m’interessa. Sempre alla partenza il risultato era scontato in 7 regioni: 2 a maggioranza di centro destra, la Lombardia e il Veneto, e 5 a maggioranza di centro sinistra, l’Emilia Romagna, la Toscana, l’Umbria, le Marche e la Basilicata. Questo secondo gruppo, e, in particolare, l’Emilia Romagna e la Toscana, rappresentano un vero e proprio blocco storico e sociale, con le amministrazioni di sinistra che sono parte stessa di un’economia largamente infiltrata dalla politica e di un tessuto civile nella cui trama si trovano, in posizione dominante, quelle strutture un tempo fiancheggiatrici del partito comunista.
Ebbene, in due regioni del sud, Campania e Calabria, gli elettori hanno ribaltato la maggioranza, consegnandola al centro destra. E’ un dato importante, che non dovrà essere dimenticato nella lettura politica che dei risultati deve essere fatta. Il centro destra, mai dimenticarlo, è oggi al governo certamente in virtù dell’accordo con la Lega, ma grazie ad una maggioranza dei voti raccolti al sud, dove l’influenza di quel partito è inesistente. Siccome saranno in molti a cercare di consolarsi, specie fra gli analisti e i commentatori che non ne azzeccano una neanche per sbaglio, sicché sosterranno che la vittoria leghista al nord sarà un problema per il Pdl, faccio osservare, appunto, che in una democrazia funzionante non è lo spostamento di voti fra alleati, ma il cambio di fronte degli elettori a far la differenza, e che, in ogni caso, il risultato di queste regioni depone in senso opposto.
A queste due aggiungerei la Puglia, dove gli elettori restano, in maggioranza, a favore del centro destra. Prevengo l’obiezione: è vero, Adriana Poli Bortone non era candidata della destra, ma dell’Udc, ma è anche vero che si tratta di un politico nato e cresciuto nel Movimento Sociale, nonché ministro del primo governo Berlusconi. Difficile intrupparla fra gli oppositori del centro destra.
Restano 3 regioni (Lazio, Piemonte e Liguria) che non sono feudi elettorali di questo o di quello, che hanno, nel tempo, cambiato il colore politico delle loro amministrazioni e che, anche questa volta, al di là del risultato finale, si sono trovate in bilico, contendibili. Con due elementi che sarebbe sciocco non considerare: a. l’amministrazione uscente, quindi il vantaggio di avere amministrato un potere reale, era di sinistra; b. nel Lazio, addirittura, mancava, nella provincia più importante, la lista del Pdl. Alla fine, la Liguria è rimasta alla sinistra, il Piemonte ed il Lazio sono andati alla destra.
Messo in ordine il quadro, proviamo a darne una lettura politica. Quattro mi sembrano le lezioni che se ne devono trarre.
1. Sono aumentate le astensioni, che segnalano, prima di tutto, una crisi dell’offerta politica. Nel senso che chi aveva votato da una parte non ha cambiato fronte, ha smesso di andare alle urne. Dovranno tenerne conto, tutti. Inoltre, sono accontentati gli intelligentoni che attribuiscono la crescita delle astensioni all’esistenza delle liste bloccate, salvo il fatto che gli astenuti crescono proprio quando ci sono le preferenze (europee e regionali). Non intendo dire che l’attuale sistema elettorale nazionale sia buono, ma solo che molte critiche sono male indirizzate.
2. Il bipolarismo allarga le sue radici. Gli elettori sono molto più bipolari del sistema politico. Tanto è vero che, anche quando possono, non premiano le forze spurie. Semmai preferiscono quelle che esercitano un ruolo condizionante all’interno di una coalizione, fino al punto, nelle regionali, di potere prenderne la guida, ma, appunto, si tratta di una cosa assai diversa.
3. Il Partito Democratico è in coma, ridotto ad una media potenza regionale che campa sull’eredità sociale del Pci. Se, anziché incontrarsi solo fra di loro, confortandosi a vicenda con battute sciocche e immaginandosi combattenti di una guerra inesistente, provassero a leggere le cose che scriviamo, da anni, avrebbero almeno la consapevolezza che così come sono contano sempre di meno. La politica non consiste nel fare una battuta in una trasmissione televisiva, dove il conduttore ti alza la palla e quasi ti suggerisce le parole, occorre sapere costruire programmi, idee, proposte, e misurarle con il Paese reale. Non per imitarlo e aderirvi, ma per poterlo cambiare senza pensare di farlo tornare indietro. Invece si sono lasciati invadere da politiche giustizialiste e fascistoidi, si sono lasciati corrompere dal linguaggio dell’avversario e hanno fatto crescere fenomeni che, ora, sono coltelli piantati nel fianco: da Antonio Di Pietro a Niki Vendola.
4. Berlusconi vince anche da fermo. Ha fatto due settimane di campagna elettorale, partendo da una situazione compromessa e gettandosi alla difesa di apparati burocratici interni (la faccenda della lista laziale) sostanzialmente indifendibili. Eppure ha vinto, mentre nel resto d’Europa, per non parlare della Francia, le elezioni amministrative hanno punito i governi in carica, che pagano il costo della crisi economica. Ha vinto perché s’è offerto alla battaglia, nella quale ha contato la sua persona, la sua chiamata alla riscossa, la sua indomita volontà di continuare, ma non hanno contato le cose fatte dal governo, che, a due anni dall’insediamento, gode di una salute inferiore a quella di cui lui parla. Ha vinto, ma gli elettori hanno anche mandato due messaggi: sia non votando che votando Lega.
Anche questa tornata elettorale l’abbiamo alle spalle. E’ giunto il tempo di porre mano non alle mille cose da elencare, ma alle dieci riforme con cui cambiare l’Italia. I problemi che incombono sono pesanti, non si potrà scantonarli. Quando si tornerà a votare non basterà giovarsi di un avversario tramortito, si dovrà raccontare agli italiani che cosa la politica ha fatto e può fare per rendere migliore la vita di tutti e concreta la speranza di un futuro migliore.
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L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.