È inutile gridare “dagli al banchiere”
Le colpe delle banche
Tre considerazioni da leggeredi Enrico Cisnetto - 07 ottobre 2011
Provate a mettervi nei panni di un banchiere. Lo so, a molti l’idea fa schifo e agli altri, pur con tutta la buona volontà, proprio non riesce. Eppure è uno sforzo che occorre fare, se si vuole capire come uscire dalla maledetta crisi in cui (per certi versi) siamo finiti e (in buona misura) ci siamo infilati. Perché non c’è dubbio che senza attivare due processi che riguardano tutto il sistema creditizio europeo – da un lato, una concordata (in sede Ue) ricapitalizzazione delle banche, e dall’altro l’aumento della liquidità a loro disposizione a tassi ragionevoli – a saltare non saranno gli istituti e i banchieri che ne sono a capo, ma l’intera economia continentale, sulla quale già ora comincia a spuntare l’ombra sinistra della recessione.
Dunque, prima considerazione: evitiamo di pensare – lo dico perché ne sento parlare in giro con troppa facilità – che le banche ci sono “nemiche”, e che sia solo per colpa loro che ci troviamo “nella m”, visto che la crisi iniziata nell’estate del 2007 ha avuto origine nell’eccesso di finanziarizzazione dell’economia globale. Questo non significa che le banche siano esenti da peccati. Ma sono più vittime che causa della crisi. Il resto è qualunquismo. Secondo punto: le banche non sono tutte uguali, non si può non distinguere tra quelle d’affari, in cui la finanza è tutto, e quelle commerciali, in cui il retail è il focus dell’attività, dell’organizzazione e dei risultati di bilancio. Le prime hanno reso l’attività finanziaria fine a se stessa e non più al servizio dell’economia reale, le seconde solo in alcuni casi e parzialmente.
Ora, è vero che finora a pagare il prezzo più alto è stata la Lehman, cioè una banca d’investimento, ma è altrettanto vero che la lunga lista di quelle a cui è stato impedito di fallire grazie a salvataggi pubblici, dalla Nothern Rock in poi, sono della sponda opposta. Terza considerazione: oggi le banche soffrono per una presenza eccessiva di titoli di Stato nei loro portafogli, visto che quasi tutti, ad eccezione dei bund tedeschi, hanno sofferto (guardare gli spread per credere). Ora, pensate che i banchieri comprino titoli greci, portoghesi, spagnoli, italiani, belgi e persino francesi – la franco-belga Dexia, in grave difficoltà, ne ha per 21 miliardi – solo per speculare, o piuttosto anche perché i governi premono per evitare che le aste vadano deserte? La risposta è ovvia.
La verità è che si è creato un circuito perverso, per cui senza le banche i governi non riescono a emettere nuovi titoli del debito, ma se gli spread aumentano a segnalare un maggiore rischio di solvibilità degli Stati, le mettono in grave difficoltà.
Questo accresce la diffidenza tra banche, che non si prestano più il denaro nel prosciugato canale interbancario, costringendole a chiedere soldi alla Bce, che da prestatore di “ultima istanza” è diventata di “unica istanza”. Francoforte questa indispensabile funzione la svolge, solo che lo fa a costi crescenti per via dei tassi reali legati agli spread, e così le banche italiane a famiglie e imprese o prestano denaro caro (gli ultimi dati di Bankitalia sono 3,7% i mutui e tra 3% e 4,15% i prestiti, ma la sensazione è che siano medie poco indicative) o non lo prestano affatto. Finora, per la verità, gli impieghi sono aumentati, e chi lo fa di più è premiato (Carige, per esempio, viaggia a +9,4% di impieghi, il doppio della media del sistema, ed è la seconda banca d’Europa meno penalizzata in Borsa).
Ma con le sofferenze in forte aumento (quelle lorde, cioè al netto delle svalutazioni, sono arrivate a 100 miliardi, il doppio di due anni fa) e con il fatto che gran parte la domanda di denaro non è per investimenti, ma per tentare di tappare i buchi di situazioni aziendali sempre più critiche, il rischio se non di un credit crunch di uno stop al credito, è molto alto. Allora, è inutile gridare “dagli al banchiere”. Partiamo dal presupposto che le banche sono uno snodo fondamentale del sistema, e che dunque vanno aiutate ad aiutare l’economia.
Sapendo che saranno tanto più solide quanto più sono liquide. Mettiamole in condizione sì di ricapitalizzarsi secondo un piano Ue, ma tenendo conto che negli ultimi tre anni i primi sette gruppi bancari italiani hanno tirato sù quasi 20 miliardi, e l’ultimo aumento andato a buon (anzi a ottimo) fine, quello da 150 milioni di Carife, la piccola ma forte Cassa di risparmio di Ferrara, vale doppio perché si è chiuso il 29 settembre nel pieno della bufera. Ma soprattutto evitiamo che manchi il flusso di liquidità – bene l’annuncio di Trichet di due operazioni straordinarie della Bce con prestiti illimitati alle banche ad almeno 12 mesi e il ritorno degli acquisti di covered bond – e vediamo che sia secondo i tassi formali (altrimenti il tasso di riferimento dell’1,5% confermato ieri da Bce a che serve?).
E magari facciamo tesoro conto dei suggerimenti di chi vorrebbe una “Basilea Zero” (da leggere il libro intitolato così edito dal Sole 24 Ore e scritto da Massimo Molinari, dirigente di Mps) e di chi chiede che le regole della vigilanza riguardino in egual misura le banche come l’intero sistema finanziario.
Dunque, prima considerazione: evitiamo di pensare – lo dico perché ne sento parlare in giro con troppa facilità – che le banche ci sono “nemiche”, e che sia solo per colpa loro che ci troviamo “nella m”, visto che la crisi iniziata nell’estate del 2007 ha avuto origine nell’eccesso di finanziarizzazione dell’economia globale. Questo non significa che le banche siano esenti da peccati. Ma sono più vittime che causa della crisi. Il resto è qualunquismo. Secondo punto: le banche non sono tutte uguali, non si può non distinguere tra quelle d’affari, in cui la finanza è tutto, e quelle commerciali, in cui il retail è il focus dell’attività, dell’organizzazione e dei risultati di bilancio. Le prime hanno reso l’attività finanziaria fine a se stessa e non più al servizio dell’economia reale, le seconde solo in alcuni casi e parzialmente.
Ora, è vero che finora a pagare il prezzo più alto è stata la Lehman, cioè una banca d’investimento, ma è altrettanto vero che la lunga lista di quelle a cui è stato impedito di fallire grazie a salvataggi pubblici, dalla Nothern Rock in poi, sono della sponda opposta. Terza considerazione: oggi le banche soffrono per una presenza eccessiva di titoli di Stato nei loro portafogli, visto che quasi tutti, ad eccezione dei bund tedeschi, hanno sofferto (guardare gli spread per credere). Ora, pensate che i banchieri comprino titoli greci, portoghesi, spagnoli, italiani, belgi e persino francesi – la franco-belga Dexia, in grave difficoltà, ne ha per 21 miliardi – solo per speculare, o piuttosto anche perché i governi premono per evitare che le aste vadano deserte? La risposta è ovvia.
La verità è che si è creato un circuito perverso, per cui senza le banche i governi non riescono a emettere nuovi titoli del debito, ma se gli spread aumentano a segnalare un maggiore rischio di solvibilità degli Stati, le mettono in grave difficoltà.
Questo accresce la diffidenza tra banche, che non si prestano più il denaro nel prosciugato canale interbancario, costringendole a chiedere soldi alla Bce, che da prestatore di “ultima istanza” è diventata di “unica istanza”. Francoforte questa indispensabile funzione la svolge, solo che lo fa a costi crescenti per via dei tassi reali legati agli spread, e così le banche italiane a famiglie e imprese o prestano denaro caro (gli ultimi dati di Bankitalia sono 3,7% i mutui e tra 3% e 4,15% i prestiti, ma la sensazione è che siano medie poco indicative) o non lo prestano affatto. Finora, per la verità, gli impieghi sono aumentati, e chi lo fa di più è premiato (Carige, per esempio, viaggia a +9,4% di impieghi, il doppio della media del sistema, ed è la seconda banca d’Europa meno penalizzata in Borsa).
Ma con le sofferenze in forte aumento (quelle lorde, cioè al netto delle svalutazioni, sono arrivate a 100 miliardi, il doppio di due anni fa) e con il fatto che gran parte la domanda di denaro non è per investimenti, ma per tentare di tappare i buchi di situazioni aziendali sempre più critiche, il rischio se non di un credit crunch di uno stop al credito, è molto alto. Allora, è inutile gridare “dagli al banchiere”. Partiamo dal presupposto che le banche sono uno snodo fondamentale del sistema, e che dunque vanno aiutate ad aiutare l’economia.
Sapendo che saranno tanto più solide quanto più sono liquide. Mettiamole in condizione sì di ricapitalizzarsi secondo un piano Ue, ma tenendo conto che negli ultimi tre anni i primi sette gruppi bancari italiani hanno tirato sù quasi 20 miliardi, e l’ultimo aumento andato a buon (anzi a ottimo) fine, quello da 150 milioni di Carife, la piccola ma forte Cassa di risparmio di Ferrara, vale doppio perché si è chiuso il 29 settembre nel pieno della bufera. Ma soprattutto evitiamo che manchi il flusso di liquidità – bene l’annuncio di Trichet di due operazioni straordinarie della Bce con prestiti illimitati alle banche ad almeno 12 mesi e il ritorno degli acquisti di covered bond – e vediamo che sia secondo i tassi formali (altrimenti il tasso di riferimento dell’1,5% confermato ieri da Bce a che serve?).
E magari facciamo tesoro conto dei suggerimenti di chi vorrebbe una “Basilea Zero” (da leggere il libro intitolato così edito dal Sole 24 Ore e scritto da Massimo Molinari, dirigente di Mps) e di chi chiede che le regole della vigilanza riguardino in egual misura le banche come l’intero sistema finanziario.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.