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Public Policy

Riforma del mercato del lavoro e ammortizzatori sociali

Lavoro e produttività

Meno garanzie al singolo devono portare più opportunità collettive

di Davide Giacalone - 15 marzo 2012

La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali non deve fare la fine del decreto liberalizzazioni: titolo roboante e sostanza striminzita, quando non addirittura opposta alla reclamata liberalizzazione. Sono materie difficili, che muovono interessi vasti, ma non è un buon motivo per limitarsi all’enunciazione. Da questo punto di vista sia la competenza che la determinazione del ministro Fornero sono buone premesse. Lo è meno l’ipotetica “paccata” di miliardi, giacché i soldi della spesa pubblica non sono nella disponibilità negoziale di una persona e dovrebbero dirigersi verso ciò che è giusto, non verso quel che aiuta a chiudere degli accordi. Il tema della produttività italiana non è quello del livello dei salari.

Non sono drammaticamente al di sotto della media europea, come era stato calcolato da Eurostat (a proposito: è previsto il licenziamento di chi prende simili sfondoni? o la burocrazia europea è una nuova forma d’intangibile nobiltà?), ma neanche sono alti. E’ alto, invece, il costo del lavoro. Come è inadeguata e troppo protettiva la sua regolazione. Ogni riforma degna di questo nome, quindi, muove verso un minore carico fiscale e una maggiore mobilità, assistita da minori protezioni. Abbiamo un vantaggio: i nostri ammortizzatori sociali non sono stati concepiti a difesa dei lavoratori, ma dei posti di lavoro. E’ vero che consegnano quattrini a lavoratori altrimenti privi di salario, ma proteggono eccessivamente sia l’azienda mal gestita e fuori mercato, sia il potere di mediazione dei sindacati. Meglio rendere libero, ma oneroso, il licenziamento, piuttosto che obbligatorio, ma a carico altrui, tenersi i lavoratori.

Tale arretratezza è un vantaggio perché superandola si risparmiano risorse che possono essere spostate a sostegno dei lavoratori che perdono il posto. Il che non deve affatto significare il sovvenzionamento della disoccupazione, altrimenti si torna alla spesa improduttiva e meramente sostentativa, ma un incentivo alla mobilità: diventa più facile, e meno drammatico, perdere il posto, ma diventa più facile anche rientrare, laddove ciò è produttivo. Minori garanzie al singolo devono portare a maggiori opportunità collettive. Nello scambio, ovviamente, c’è chi ci perde (gli attuali garantiti) e chi ci guadagna (gli attuali esclusi). Ed è normale che chi ci perde trovi forze, sindacali e politiche, che ne rappresentino e ne facciano pesare il disagio. Lo scambio, però, è virtuoso se avviene in fretta e se, a forza di compensarlo, non lo si snatura.

E’ qui che preoccupa la “paccata”. Quei soldi non è giusto che siano utilizzati per ricattare il sindacato, ma neanche è giusto che siano l’oggetto di un baratto che, a quel punto, perde la sua legittimazione più forte: l’interesse generale, quello di tutti, ad avere un mercato più competitivo, più capace di produrre ricchezza e, quindi, in grado di generarne abbastanza da porre il tema della redistribuzione (che credo debba avvenire sotto forma di abbassamento delle tasse e non di maggiore spesa pubblica, che va tagliata ancora di più). Se, invece, si cincischia sull’articolo 18, facendo finta di sentirsi intelligenti nel dire che non è determinante e che è solo una bandiera, ovvero facendo finta di non sapere che il suo valore è simbolico circa l’approdo o meno ad un mercato più dinamico e meno corporativo, allora siamo messi male e s’intravede l’inglorioso epilogo delle (non) liberalizzazioni.

Se su questo schema ci si butta pure la “paccata”, allora meglio lasciare perdere. Voglio credere che non succederà. Che la strada migliore potrà e dovrà essere imboccata. Non farlo sarebbe uno spreco, perché se togliete l’audio ai professionisti della rappresentanza (che rappresentano una minoranza) sentirete la voce di un’Italia strapronta non solo ad accogliere, ma a festeggiare un mercato più aperto e produttivo. E’ l’Italia non rappresentata, quella che ancora ci consente di essere uno dei Paesi più ricchi del mondo.

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