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Public Policy

Suggerimenti, volume secondo

L'agenda non basta

Consigli non richiesti al prof. per rendere più efficace la sua azione politica

di Enrico Cisnetto - 11 gennaio 2013

L’agenda Monti è necessaria ma non basta, parte seconda. Ho scritto qui una settimana fa le ragioni politiche che mi inducono a calzare i panni del dispensatore di consigli non richiesti all’area di centro che il presidente del Consiglio ha meritoriamente coagulato, nella convinzione che la sua iniziativa sia tanto importante – per rompere l’eterno, e inconcludente, gioco bipolare – quanto bisognosa di “aggiustamenti”. Ora tocca alle ragioni programmatiche.

Il difetto maggiore dell’agenda Monti sta nella mancanza di un disegno di respiro strategico che faccia immaginare agli italiani verso quale Paese s’intende portarli. Cosa tanto più necessaria visto che a indicare strada e punto d’arrivo dovrebbe essere colui che si è assunto la responsabilità – ed è questo sicuramente il merito principale di Monti – di imporre agli stessi italiani cui ora chiede il voto, i sacrifici necessari per evitare la catastrofe. Ho visto che il Professore, in vena di frequentazioni cattoliche, continua a parlare di “economia sociale di mercato”, definizione un po’ retrò ma che ha il pregio di respingere le suggestione liberiste e mercatiste rimaste in piedi nonostante che la crisi finanziaria mondiale vada messa sul conto di chi ha predicato il laissez faire a tuti i costi. Meglio parlare, suggerisco, di un progetto liberal-keynesiano, che non è un ossimoro, se si usa la concretezza del pragmatismo al posto del solito approccio ideologico-schematico. Progetto riformista (culturalmente debitore più a Ugo La Malfa che a De Gasperi) che propugna contemporaneamente “più Stato” – nel senso dell’assunzione di responsabilità della politica di indicare un modello di sviluppo e di intraprendere tutte le azioni di politica industriale, compresi gli investimenti strategici che i privati non fanno, necessarie a realizzarlo – e “più mercato”, nel senso delle liberalizzazioni necessarie a far sprigionare al meglio tutti gli “animal spirit” presenti nella società. E dove il rigore (nei conti pubblici, ma non solo) non si realizza con i tagli della spending review e le intemerate vessatorie sul Fisco (più spettacolari che concrete, tra l’altro), ma con grandi di riforme di sistema che oltre a portare risparmi o maggiori entrate, prima di tutto generino modernizzazioni, razionalizzazioni e semplificazioni burocratiche.

L’idea potrebbe essere quella di proporre un “patto agli italiani” dove ad essi si chiede di concorrere ad un risanamento virtuoso e definitivo della finanza pubblica, sia mettendo mano al portafoglio (non in modo punitivo) sia rinunciando ai vantaggi individuali e corporativi (ma dannosi per la collettività) derivanti dalla spesa pubblica corrente improduttiva, e in cambio si offrono investimenti e riduzione della pressione fiscale a favore della crescita, e quindi a vantaggio di occupazione, redditi e profitti. Come? Primo: intestare ad una società veicolo da quotare in Borsa il patrimonio pubblico dello Stato e degli enti locali, o quantomeno quella quota parte che si stima più facilmente valorizzabile. Secondo: obbligare i detentori di patrimonio privato, oltre una certa soglia e con percentuali progressive, a sottoscrivere i titoli (azionari e obbligazionari) della quotanda, a fronte di una definitiva cancellazione di tasse patrimoniali come l’Imu. Terzo: del ricavato di questa sorta di patrimoniale light, i due terzi vanno utilizzati per portare il rapporto debito-pil sotto la soglia del 100%. Quarto: il rimanente terzo deve essere impiegato sia per ridurre la pressione fiscale su imprese e lavoro, sia in investimenti in conto capitale, da concentrare tanto sulle grandi infrastrutture materiali e immateriali che servono al Paese per modernizzarsi, quanto per costruire e rafforzare la presenza del nostro sistema produttivo in alcuni settori strategici ad alta intensità di “capitale-tecnologia-innovazione” e che richiedono grandi dimensioni. Quinto: in questo disegno un ruolo centrale di ridisegno e rafforzamento del capitalismo italiano va assegnato alla Cdp, senza avere paura che si possa ribattezzare “nuova Iri”, visto che nella fase post-crisi del ’29 e della ricostruzione post-bellica l’istituto nato nel 1933 ebbe un ruolo decisivo e che ora l’Italia ha di fronte una stagione non dissimile da quelle. Sesto: 70 miliardi del ricavato devono essere obbligatoriamente usati per pagare i debiti delle pubbliche amministrazioni con le aziende e avviare un ciclo virtuoso di adeguamento ai tempi di pagamento europei (mettere subito denaro fresco nel motore è indispensabile per riavviare lo sviluppo). Settimo: ridurre la spesa pubblica corrente di almeno sette punti (dal 52% al 45% del pil), attraverso una decisa semplificazione del decentramento (riduzione a sette del numero delle Regioni, abolizione di tutte le Province e dei Comuni sotto i 5 mila abitanti, ecc.), una totale rivisitazione della sanità e un netto ridimensionamento dei dipendenti pubblici.

Pronto a scommettere, con un po’ di presunzione, che questo piano, pur spaventando taluni, riscuoterebbe un consenso (anche elettorale) più significativo della troppo prudente e poco emotivamente coinvolgente “agenda”.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.