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In attesa delle elezioni in Israele dopo Sharon

La vittoria di Hamas

In Palestina gli estremisti ottengono più del 50% dei seggi. E la pace è appesa a un filo

di Davide Giacalone - 26 gennaio 2006

Le elezioni palestinesi si sono svolte in maniera regolare e tranquilla, chiamando alle urne un’alta percentuale di aventi diritto. Le persone che sin sono messe in fila, ai seggi, non recavano, nel loro insieme, i lugubri segni del fanatismo religioso. Tutti segni positivi, tutti sintomi da valorizzare. Quando è cominciato il conteggio dei voti, però, è emersa una realtà che sembra inconciliabile con il desiderio di pace, dato che, adesso, si devono fare i conti con chi ha detto di non volerla, Hamas.

Aveva ragione, dunque, Sharon a correre verso la pace, con una forzatura brutale nella restituzione di territori occupati. Avevamo ragione, noi, a dire che il tempo era corto. Il leader dei palestinesi, Abu Mazen, voleva andare in quella direzione, ma appariva ogni giorno più debole. La vittoria di Hamas ferma un processo, il che, però, non significa che quello sforzo di pace è abortito, significa che conteranno ancora di più i segnali politici provenienti dall’esterno.

Hamas ha tenuto una posizione estremista, guerrafondaia e terrorista, questo è un fatto. Ma è anche vero che questo serviva per contrapporsi ad Al Fatah ed a Mazen, così come è vero che quell’atteggiamento non era certo estraneo a gran parte della società palestinese, come le elezioni dimostrano. Ora, però, è finita la campagna elettorale ed una riapertura delle ostilità implicherebbe una reazione durissima di Israele, sostenuta dalla comunità internazionale. I nuovi dirigenti palestinesi non possono non saperlo, e c’è da sperare, quindi, che vogliano governare loro quel che s’opponevano fosse governato dai loro avversari interni. Conterà, e molto, l’atteggiamento di Israele e del mondo libero.

Anche in Israele, fra poco, ci saranno le elezioni. Se vinceranno i “duri”, se vincerà la tesi secondo la quale Sharon aveva sbagliato e la vittoria di Hamas ne è una dimostrazione, tutto tornerà in alto mare. Ancora una volta l’occasione di pace sarebbe andata sprecata. Né si può credere che le vicende palestinesi non abbiano un peso, perché Sharon poteva pure ritirarsi con gesto unilaterale, ma gli israeliani non possono certo far la pace da soli. La speranza è che in Israele lo scettro democratico non cambi mano, che Ehud Olmert possa andare avanti, come a dire: noi siamo sempre pronti, sapremo reagire alle offese, ma non lasceremo cadere le offerte.

E conterà, molto, anzi moltissimo, l’atteggiamento della comunità internazionale. Diciamolo con franchezza: avevamo plaudito alle parole di Blair, quando il premier britannico aveva duramente condannato le parole deliranti del presidente iraniano, ma, poi, alcune altre prese di posizione, in Germania come in Francia, sono state penose. Invece serve che non ci sia alcun tentennamento, il disegno politico del riarmo nucleare e della distruzione d’Israele deve sapere con certezza che si troverà innanzi non solo alla condanna, ma anche alla disponibilità alla guerra delle democrazie occidentali. Se questo messaggio giungerà chiaro in Iran, sortirà effetti anche in Palestina.

I palestinesi hanno votato, e non saranno certo gli amanti della democrazia a giudicare non valido il loro voto. Ma i nuovi dirigenti devono sapere quali saranno i limiti entro i quali potranno muoversi, non devono coltivare illusioni su quale sia l’alternativa alla pace. Del resto, anche Ariel Sharon era considerato un “falco”, ed il suo governo era sostenuto dagli estremisti religiosi, senza che questo gli abbia impedito di saper leggere le carte della storia, di saper cogliere la miglior convenienza per il suo popolo.

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