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Il capo dello Stato non deporrà sulle telefonate

La trattativa e il presidente sbagliato

Napolitano non c'entra nulla e nulla ha da dire (per diretta conoscenza) sui rapporti Stato-mafia. La regia fu di Scalfaro.

di Davide Giacalone - 22 maggio 2013

Il Quirinale è finito nella trappola della trattativa Stato-mafia. Non Giorgio Napolitano, che credo c’entri nulla e nulla abbia da dire (per diretta conoscenza), ma il Quirinale. Sono tre, non uno, i presidenti coinvolti. La trappola è data dalla collisione fra il teorema politico della trattativa e la contropartita reale che fu data. La collisione è inevitabile per ragioni di calendario. Infine: mentre tutti gli occhi restano puntati su una questione di secondaria importanza, sebbene esteticamente orrenda, ovvero la chiamata di Napolitano a testimoniare (esclusa per le telefonate distrutte, ma non per il resto), nessuno sembra accorgersi della cosa più rilevante: il tentativo di annientamento dell’Arma dei Carabinieri.

Mi rendo conto che si tratta di storie repellenti. E’ difficile raccapezzarsi quindi è più facile esprimere giudizi sommari e genericamente dispregiativi. Ma i lettori che hanno avuto (l’infinita) pazienza di seguirci possono oggi constatare che la nostra ricostruzione dei fatti appare come la più solida. Quella cui si allineano anche i precedenti sostenitori di teoremi opposti: tutto accade sotto la regia di Oscar Luigi Scalfaro, che favorì un favore ai mafiosi. Vi chiedo ancora pazienza.

Ho preso in mano con timore un libro appena uscito (“Contro scettici e disfattisti”), che raccoglie le riflessioni tratte dai diari personali di Carlo Azelio Ciampi. Fu durante il suo governo che esplosero le bombe di mafia, che furono revocati i trattamenti carcerari duri e che le bombe smisero di esplodere. Ciampi ha detto varie cose, nel tempo, non molto fondate. Sostenne che quelle bombe servivano a far cadere il suo governo, invece fu quello che rispose concedendo. Cosa si ricava dai suoi diari? La risposta è: nulla. 235 pagine e non è mai neanche nominato Giovanni Conso, suo ministro della giustizia, l’uomo che avallò la revoca del 41 bis. Nulla. Ma un nulla reso clamoroso da chi ha scritto il libro (un professore di storia, Umberto Gentiloni Silveri), che quando sfiora l’argomento, per nulla dire, inserisce una nota, la numero 35, con la quale rimanda al libro di Nicolò Amato, dove l’autore sostiene di essere stato fatto fuori proprio per concedere a molti mafiosi la revoca del carcere duro. Perché Ciampi non dice nulla? Credo perché non ne sa nulla, nulla ne capì e quel che capisce oggi gli fa paura: fu strumento inerte nelle mani di Scalfaro.

Fu il presidente della Repubblica a chiedere l’allontanamento di Amato e la chiamata al Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) di Adalberto Capriotti, segnalatogli dal Vaticano. Suo vice divenne Francesco Di Maggio. Oggi tutti parlano del secondo, ma è incredibile che sia stato cancellato il primo. L’uomo decisivo, quello che Conso nominò senza neanche conoscerlo. Perché lo fece? Perché glielo chiese Scalfaro. Tutto si conclude nel 1993. Stampatevi bene in mente questa data.

Cosa c’entra Napolitano? Niente. O quasi. In realtà il problema si pone proprio perché il suo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, finito nell’occhio del ciclone per le telefonate intercettate con Nicola Mancino, gli spedì una lettera in cui ricorda di avere avanzato riserve proprio su quello che si fece in quel 1993. Adombra il dubbio, lo scomparso D’Ambrosio, d’essere stato a sua volta “un ingenuo e utile scriba”. La procura di Palermo vuol sapere da Napolitano: gli disse qualche cosa di più? Domanda sciocca, perché basta andare a rivedere gli atti di quei mesi per avere la ricostruzione dei fatti. Quelli da noi raccontati: a decidere fu Scalfaro, indirizzato da Capriotti, voluto dal Vaticano e imposto a Conso, con Ciampi forse neanche informato. Un governo totalmente esautorato.

Per coprire questa storia è poi stata inventata un’altra trattativa, gestita da Mario Mori, comandante del Ros. Invenzione che serve a postdatare l’intera faccenda e metterla sul conto di Dell’Utri-Berlusconi, che arrivano al governo nel 1994 (quando il 41 bis viene restaurato!). Teorema che torna utile a due cose: a. usare la giustizia per la battaglia politica in corso; b. annientare i Carabinieri. Ed è in base a questa strategia che i banchi degli imputati si riempiono dei vertici dell’Arma. Non si tratta di difendere Dell’Utri-Berlusconi, ma di chiarire che quell’accusa serve a nascondere la verità.

E l’“agenda rossa” di Paolo Borsellino, non ci aveva forse appuntato il suo dissenso da quella trattativa? non fu ucciso per quello? Davvero singolare: sparita l’agenda ci hanno scritto quel che volevano ci fosse scritto. Invece credo che in quegli appunti Borsellino cercasse di tenere il filo dello scontro, fra Giovanni Falcone prima e lui stesso dopo, con la procura di Palermo, retta da Pietro Giammanco. La stessa procura che una volta morto Borsellino provvede immediatamente, d’estate e nel fine settimana, a insabbiare l’inchiesta “mafia-appalti”. Condotta dai Carabinieri, in sintonia con Falcone e Borsellino.

Lo so, è tanto più facile e affascinante alimentare i misteri e all’ombra di quelli gestire gli affari, ma quel che è veramente sparito, e va veramente cercato, è quell’inchiesta. Finché non lo si sarà fatto resterà nei guai non solo il Quirinale, ma l’Italia. Avvelenata.

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