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Appurato lo stato di recessione, bisogna agire

La strada da seguire è un’altra

Passiamo alle misure da prendere per fronteggiare questa crisi, prima che sia troppo tardi

di Enrico Cisnetto - 13 febbraio 2009

Considerato che le ultime drammatiche indicazioni sulla produzione industriale e le previsioni allarmate sul pil della pur filo-governativa Confindustria, si sono incaricate di sgombrare il campo dall’inutile dibattito se la recessione c’è o non c’è e su quanto sia grave, ora nell’agenda della crisi può finalmente prendere posto il tema delle misure da prendere per fronteggiare questa situazione, e più in generale la questione relativa alle scelte di carattere strutturale che in tale circostanza straordinaria è possibile ed opportuno fare. A questo proposito, mi pare che ai nostri fini i livelli siano quattro: quello planetario, che si traduce nelle riunioni dei vari G come per esempio il G7 finanziario a presidenza italiana che si apre oggi a Roma, in cui però finora non si è andati al di là di auspici circa nuove e più stringenti regole comuni relative ai mercati finanziari; quello americano, forse il più attivo e affollato di decisioni, sia relative alle banche che all’economia reale, caratterizzato però più che altro dagli effetti psicologici prodotti dalla nomina di Obama; il piano europeo, nel quale si sono visti l’attivismo di Brown e di Sarkozy e la solidità e prudenza della Merkel, ma soprattutto non si è visto neanche un poco di quella capacità unitaria che invece sarebbe indispensabile per evitare la disintegrazione di Eurolandia; e infine il livello nazionale, finora caratterizzato quasi esclusivamente dalle scelte del ministro Tremonti, nell’assenza generale di altri protagonisti.

Se posso permettermi di riassumere, Tremonti finora ha detto le seguenti cose: a. la crisi è epocale; b. la crisi è finanziaria, e solo l’incapacità (o mancanza di coraggio) di circoscriverla (“separare il bene dal male” è l’espressione biblica che egli usa) ha finito col permettere che infettasse anche la cosiddetta economia reale; c. alla luce delle due asserzioni precedenti, se ne deve dedurre che il “luogo” per affrontare la crisi è solo l’ambito finanziario e solo il livello mondiale, con qualche ricaduta continentale se proprio s’insiste a voler restringere il perimetro delle decisioni; d. non è spendendo soldi che si risolve il problema, visto che proprio l’eccesso di debito è ciò che a questa crisi ha portato, e questo vale per tutti e non solo per l’Italia che ha il terzo maggior debito del mondo; e. se proprio soldi bisogna spendere, essi devono andare nella direzione dei sussidi ai più poveri e comunque a coloro che dalla crisi sono stati incolpevolmente penalizzati; f. nella fattispecie, guai a fare riforme strutturali, a cominciare da quella delle pensioni. Se il bignamino è corretto, io a mia volta ne deduco tre cose: 1. è un ragionamento coerente; 2. è l’unico pensiero degno di questo nome che circoli nella politica italiana; 3. è sbagliato. Provo a dire perché.

Non c’è dubbio che il terreno su cui è nata e si è propalata la crisi sia quello finanziario, e che la sua essenza – come ho già avuto modo di dire fin dallo scoppio della bolla immobiliare e dei mutui dell’estate 2007 – sia l’eccesso di finanziarizzazione dell’economia globale, e dunque l’eccesso di debito che si è venuto a creare nel mondo. Questo, però, non implica che la crisi si sia trasferita all’economia produttiva per l’ignavia di qualcuno, ma perché il debito è strumento fondamentale dello sviluppo produttivo, ed era dunque prevedibile ed inevitabile il contagio. Da ciò ne deriva che è anche ma non solo sul terreno finanziario che la crisi va fronteggiata e aggredita, così come che del debito possono e debbono essere circoscritti i suoi eccessi, ma non criminalizzato.

Un conto è ridurlo, altro è immaginare un’economia di stampo pasoliniano in cui la leva finanziaria sia del tutto esclusa dalla cassetta degli attrezzi dello sviluppo. Dunque, se è vero che la finanza è terreno per interventi di carattere sovranazionale, altrettanto fondata è la necessità di misure nazionali ed europee (ma qui è inutile illudersi: senza gli Stati Uniti d’Europa non ci saranno mai le condizioni politiche per andare al di là dell’inutile Commissione e dei parzialissimi “assi privilegiati”) per il mondo produttivo. Da ciò ne consegue che questa è una fase storica in cui gli Stati devono spendere, ma porsi il problema di come rientrare del nuovo debito, mentre non possono indebitarsi ulteriormente quelli, come l’Italia, che ne hanno già troppo.

Il che non significa attendere che la nottata passi, ma creare le condizioni per poter spendere: nel nostro caso, fare quelle riforme sulle principali voci della spesa che consentano di spendere. Ma se il Tesoro afferma, come è successo non più tardi di quattro giorni fa, che il sistema previdenziale è in equilibrio e non c’è nessun bisogno di alzare l’età pensionabile, allora le riforme diventano impossibili e si lascia spazio solo all’alternativa tra un doppio sbaglio: o non far niente contro recessione (linea Tremonti) o spendere facendo debito (linea Berlusconi e centro-sinistra). Finora è prevalsa la prima – per fortuna, tra le due è il male minore, l’altra ci porta dritti al default – ma sarebbe bene che anche Tremonti si decidesse a prendere in considerazione la terza.

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