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Taglio alla spesa pubblica

La spending review: quella vera che serve

Per ridurre il debito pubblico i tagli devono essere stutturali

di Enrico Cisnetto - 29 aprile 2012

Negli ultimi giorni una parola magica è sulla bocca di tutti e domani il governo le dedicherà una riunione del Consiglio dei Ministri: spending review. Revisione della spesa pubblica. C’è chi la usa per dire che grazie ad essa raggiungeremo l’agognato azzeramento del deficit di bilancio, chi per assicurare che da lì ci ricaveremo le risorse per affrontare la recessione, chi per tagliare le tasse o finanziare le grandi opere.
Bene, avendo la spesa pubblica raggiunto gli 820 miliardi, cioè quasi il 52% del pil e oltre 13.500 euro a testa per ciascun italiano, ed essendo quasi interamente costituita da uscite correnti e solo marginalmente da investimenti, è indispensabile metterci mano.

Ma come ha detto il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, bisogna aggredire le componenti strutturali della spesa e non solo i suoi aspetti patologici.
Invece, finora si è fatto il solito elenco degli sperperi, che per carità vanno cancellati non fosse altro per ragioni di efficienza e giustizia, ma certo non consentono risparmi significativi.

Vedremo quali proposte avanzerà ai suoi colleghi di governo il ministro per i Rapporti con il Parlamento Piero Giarda, incaricato da Monti di preparare i tagli. E sarà già un buon inizio se eviterà di suggerire interventi lineari, come è stato fatto – inutilmente – negli ultimi anni, cioè chiedendo un tot a tutti i centri di spesa senza distinguere.

Ma quando si legge nel Def che le spese dei ministeri diminuiranno di 13 miliardi tra il 2012 e il 2013 passando da 352 a 339 miliardi, si ha l’impressione che non siamo di fronte ad un cambiamento significativo delle politiche fin qui attuate.
L’approccio, infatti, va rovesciato: non bisogna fare contenimento della spesa per ragioni di bilancio, ma attuare riforme strutturali per rendere più efficiente la macchina dello Stato e privatizzare l’erogazione di alcuni servizi, grazie alle quali poi si ottengono anche vantaggi di finanza pubblica. Per esempio, l’architettura del decentramento istituzionale va rivista perché elefantiaca, burocratica, produttrice di diritti di veto paralizzanti, e non solo perché costosa.

E se l’obiettivo è renderla snella e produttiva, ecco che la sua radicale semplificazione diventa lo strumento.
Come? Riducendo a 6-7 le regioni (macro-regioni della stessa dimensione dei lander tedeschi), abolendo le inutili province, costringendo ad accorparsi i comuni sotto i 5 mila abitanti (dal censimento si evince che sono il 70%, cioè 5.664 su 8.092, e raccolgono solo il 17% della popolazione), sfoltendo del decine di soggetti di terzo e quarto grado, dalle comunità montane a gli enti di bacino.

Naturalmente avendo il coraggio di adeguare il numero dei dipendenti, che non possono immaginare di mantenere il posto a vita solo perché pubblici mentre nel privato sono centinaia di migliaia i disoccupati prodotti dalla chiusura di aziende.
Così facendo si ridisegnerebbe in modo moderno la burocrazia pubblica, e nello stesso tempo si risparmierebbe a regime oltre un centinaio di miliardi. Altro che i 13 miliardi previsti dal Def o i 25 che pare siano l’obiettivo di Monti.
Caro governo, o la spending review è questo, o sarà l’ennesima illusione che avremo creato a danno di noi stessi. E non è propriamente quello che ci aspettiamo dai tecnici.

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