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Dobbiamo "cambiare il motore" all'economia

La smania dei monopoli tariffari

Cdl e Unione sbagliano politica economica perché non vedono la crisi strutturale

di Enrico Cisnetto - 18 novembre 2005

Preferendo giudicare ex post, non mi sono mai iscritto al partito di coloro che si lamentano perché i due poli, in vista delle elezioni, hanno da lunga pezza iniziato la campagna elettorale ma non hanno ancora presentato i loro programmi. Di (presunte) buone intenzioni è lastricata la via per l’inferno del bipolarismo italiano. Per valutare centro-destra e centro-sinistra basta ricordarsi ciò che hanno fatto (poco e male) o non hanno fatto (molto) in questa come nella scorsa legislatura, nella doppia veste di maggioranza e opposizione.

Tuttavia, qualche volta certe dichiarazioni tradiscono mentalità rivelatrici di quello che uno combinerà se sarà al governo. Nel caso della Cdl, per esempio, della pochezza della sua politica economica, e dell’inesistenza di uno straccio di politica industriale, che puntualmente si sono rivelate in questi cinque anni di governo, si poteva prevedere con certezza fin dalla campagna elettorale del 2001, quando tutta l’analisi sul “caso Italia” si riduceva all’idea – infondata – che bisognasse “mettere benzina nel motore” (meno tasse uguale più consumi e più investimenti), mentre era chiaro fin dall’inizio degli anni Novanta che il declino dell’Italia (negato) era dovuto alla crisi del vecchio modello di sviluppo e che dunque il problema era “cambiare il motore”. Se tanto mi da tanto, ora c’è da rabbrividire al pensiero che se al posto di Berlusconi siederà Prodi, il punto da cui partirà nell’impostare la sua politica economica sarà quello di “punire” quelli che il Professore ha schedato come i “signori dei monopoli tariffari”. Insomma, passiamo dal “meno tasse per tutti” al “meno tariffe per tutti” senza soluzione di continuità in quanto a povertà di analisi e di proposte sulla crisi che espone l’Italia ad una drammatica marginalizzazione nello scenario globale.

Ma davvero, professor Prodi, lei ritiene che il declino derivi dal fatto che le ultime grandi aziende rimaste ad un capitalismo coriandolizzato come quello italiano (Eni, Enel, Telecom, Mediaset, Autostrade) facciano rilevanti profitti? Davvero crede che si possa fronteggiare il declino ponendo loro limiti, sia di dimensione (attraverso politiche di antitrust) sia di guadagno (con tariffe contingentate)? Prodi è uomo che conosce troppo bene la storia economica di questo Paese – per esserne stato, nel bene e nel male, uno dei protagonisti diretti: si ricorda quando le aziende pubbliche e private con i finanziamenti alla ricerca finivano nella gestione ordinaria? – per sapere che il nodo che più ci stringe alla gola non è quello della competizione ma quello della competitività, cioè della nostra capacità di stare sui mercati mondiali. O meglio, è anche quello della competizione, ma intesa soprattutto come scarsa propensione al rischio e alla assunzione delle proprie responsabilità dell’intero Paese, che per anni è stato narcotizzato da una cultura catto-comunista che ci ha resi corporativi fino al midollo. Ma questa è altra questione, e per affrontarla raccontare agli italiani che l’economia riprenderà se un pugno di aziende faranno meno profitti e saranno più piccole è proprio un punto di partenza sbagliato.

Non entro nel merito, poi, della replica che hanno voluto farle gli 11 consiglieri indipendenti di Telecom: probabilmente per la società guidata da Marco Tronchetti Provera, come per tutte le altre, si potrebbe stilare una lista di argomentate critiche, dal punto di vista dei consumatori, ma se non si vuole fare della demagogia occorre dire ai cittadini che nell’agenda delle priorità viene prima la riconversione del nostro capitalismo – e quelle sono tra le poche realtà su cui si può far leva – per riprendere la strada dello sviluppo. E i consumatori, per essere tali, hanno preventivamente bisogno di essere percettori di reddito.

Infine, i cinque anni alla guida della Ue dovrebbero averle insegnato, caro Prodi, che i servizi capital intensive sono una componente fondamentale del pil europeo, e che per loro natura sono monopolisti o al massimo oligopolisti. Pretendere di comprimerli o, peggio, di segmentarli, significa semplicemente perderli, a tutto vantaggio di operatori stranieri, naturalmente. E significa castrarne le potenzialità di investimenti, infrastrutturali e tecnologici. E per un paese che ha un gap spaventoso sia di infrastrutture (materiali e immateriali) sia di capacità di innovazione, questo sarebbe davvero un peccato mortale. A proposito, sbaglio o non l’ho sentita dire una parola sul “popolo anti-modernità” che non vuole l’alta velocità Lione-Torino?

Pubblicato sul Foglio del 18 novembre 2005

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.