Non aspettiamo inerti che la nottata passi
La schizofrenia del mercato italiano
Cinque punti fermi per fermare il gap tra capitalismo debole e capitalismo fortedi Enrico Cisnetto - 16 febbraio 2009
Il capitalismo italiano sta diventando schizofrenico. Da un lato ci sono 4,5 milioni di micro imprese (il 95% del totale) che rappresentano piccole attività industriali, artigianali e commerciali, pubblici esercizi, società di servizi individuali o poco più, che con oltre 8,6 milioni di addetti assommano il 51% dell’occupazione privata e con quasi 900 miliardi producono meno di un terzo del fatturato annuo nazionale e più di un terzo del valore aggiunto.
La stragrandissima maggioranza di queste, tra crollo della domanda, eccesso di tassazione (vedi il problema degli studi di settore) e strozzatura del credito (credit crunch, ma anche necessaria e salutare selezione del merito di credito), sono allo stremo, sia per il calo degli ordini sia per la mancanza di liquidità. Il segnale più evidente di questa drammatica situazione è il fatto che più nessun committente paga i fornitori, con la conseguenza che gli ultimi della catena, quelli che non si possono più rivalere su alcuno, saltano – non fosse altro per gli anticipi Iva che sono costretti a pagare – mentre gli altri rischiano di rimanere senza merci o servizi e a loro volta bloccano gli investimenti.
Un circuito perverso e letale in cui sono finite anche le grandi imprese più esposte o alla concorrenza o al blocco dei consumi, dall’auto (Fiat ma anche aziende dell’indotto come Brembo) alla moda (vedi il caso Ittierre, che controlla Ferré, Malo Exté e ha in licenza marchi come Versace e Cavalli). Su un altro versante, per fortuna ci sono aziende grandi e forti che macinano utili, confermano dividendi ricchi, segnano un incremento nel giro d’affari, consolidano la loro dimensione internazionale.
In queste ultimi giorni, per esempio, ci hanno confortato i dati 2008 di Eni (utile +7,7% a 10,2 miliardi, il che significa 2 miliardi tondi nelle casse del Tesoro, esattamente quanto spende per le rottamazioni varie), di Enel (ricavi +40% e mol +45% grazie al consolidamento di Endesa) e di Astaldi (ricavi in crescita del 14,7%, utile netto del 10,6%). Queste non solo continuano a spendere, mantenendo alimentato il circuito del business, ma addirittura vengono scambiate per mucche da mungere, come dimostra il caso dell’addizionale del 4% all’imposta sul reddito che il Governo ha piazzato sull’Eni e che è già stata ribattezzata “tassa Libia” visto che il suo introito sarà utilizzato per pagare i 5 miliardi che ci siamo (correttamente) impegnati a versare a Tripoli. Ma come dimostra anche il fatto che lo Stato e gli enti locali sono i primi a non pagare le fatture (la Cgia di Mestre calcola che i ritardi della pubblica amministrazione costano circa 10 miliardi l’anno) e a non restituire il credito d’imposta.
Ora, come si fa ad evitare che questa forbice già molto larga tra il capitalismo debole e quello forte si divarichi ancora di più? Risposta difficile, ma si possono individuare alcuni punti fermi. Primo: evitare di spennare chi sta bene in nome del principio (comunista) “stiamo tutti un po’ peggio”. Secondo: indurre chi ha margini a investire quanto più possibile, favorendo anche incursioni in altri settori. Terzo: niente aiuti a pioggia, e non solo per ragioni di finanza pubblica, bisogna soccorrere solo chi ha reali prospettive di mercato. Quarto: la P.A. paghi subito i debiti, magari con titoli di Stato. Quinto: guai ad aspettare che passi la nottata. Non passerebbe.
La stragrandissima maggioranza di queste, tra crollo della domanda, eccesso di tassazione (vedi il problema degli studi di settore) e strozzatura del credito (credit crunch, ma anche necessaria e salutare selezione del merito di credito), sono allo stremo, sia per il calo degli ordini sia per la mancanza di liquidità. Il segnale più evidente di questa drammatica situazione è il fatto che più nessun committente paga i fornitori, con la conseguenza che gli ultimi della catena, quelli che non si possono più rivalere su alcuno, saltano – non fosse altro per gli anticipi Iva che sono costretti a pagare – mentre gli altri rischiano di rimanere senza merci o servizi e a loro volta bloccano gli investimenti.
Un circuito perverso e letale in cui sono finite anche le grandi imprese più esposte o alla concorrenza o al blocco dei consumi, dall’auto (Fiat ma anche aziende dell’indotto come Brembo) alla moda (vedi il caso Ittierre, che controlla Ferré, Malo Exté e ha in licenza marchi come Versace e Cavalli). Su un altro versante, per fortuna ci sono aziende grandi e forti che macinano utili, confermano dividendi ricchi, segnano un incremento nel giro d’affari, consolidano la loro dimensione internazionale.
In queste ultimi giorni, per esempio, ci hanno confortato i dati 2008 di Eni (utile +7,7% a 10,2 miliardi, il che significa 2 miliardi tondi nelle casse del Tesoro, esattamente quanto spende per le rottamazioni varie), di Enel (ricavi +40% e mol +45% grazie al consolidamento di Endesa) e di Astaldi (ricavi in crescita del 14,7%, utile netto del 10,6%). Queste non solo continuano a spendere, mantenendo alimentato il circuito del business, ma addirittura vengono scambiate per mucche da mungere, come dimostra il caso dell’addizionale del 4% all’imposta sul reddito che il Governo ha piazzato sull’Eni e che è già stata ribattezzata “tassa Libia” visto che il suo introito sarà utilizzato per pagare i 5 miliardi che ci siamo (correttamente) impegnati a versare a Tripoli. Ma come dimostra anche il fatto che lo Stato e gli enti locali sono i primi a non pagare le fatture (la Cgia di Mestre calcola che i ritardi della pubblica amministrazione costano circa 10 miliardi l’anno) e a non restituire il credito d’imposta.
Ora, come si fa ad evitare che questa forbice già molto larga tra il capitalismo debole e quello forte si divarichi ancora di più? Risposta difficile, ma si possono individuare alcuni punti fermi. Primo: evitare di spennare chi sta bene in nome del principio (comunista) “stiamo tutti un po’ peggio”. Secondo: indurre chi ha margini a investire quanto più possibile, favorendo anche incursioni in altri settori. Terzo: niente aiuti a pioggia, e non solo per ragioni di finanza pubblica, bisogna soccorrere solo chi ha reali prospettive di mercato. Quarto: la P.A. paghi subito i debiti, magari con titoli di Stato. Quinto: guai ad aspettare che passi la nottata. Non passerebbe.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.