Urge una generale revisione della politica economica
La riforma dell’imposizione fiscale
È necessario promuovere in Parlamento una grande convergenza politica per far fronte a un impegno grande e eccezionaledi Angelo De Mattia - 14 gennaio 2010
Fra le riforme preannunciate dal premier Berlusconi nei giorni scorsi, quella fiscale – forse contro le stesse aspettative del Capo del Governo che vorrebbe privilegiare la cosiddetta riforma della giustizia - sta diventando prioritaria nel dibattito e nell’opinione pubblica. Del resto, è da sedici anni che si progetta una drastica revisione ( e riduzione ) delle aliquote con lo scopo di una diversa distribuzione del carico fiscale e l’asserito intento di ottenere per tale via un aumento del gettito, che conseguentemente discenderebbe – anche se ciò non è visto univocamente nella stessa dottrina – dalla riduzione fiscale in questione.
Per ora, tuttavia, dominano i “ si dice” e le indiscrezioni, nell’attesa dei lavori di una task- force che sarebbe incaricata di trarre le concrete deduzioni dalle affermazioni di carattere generale del Ministro dell’Economia riguardanti il privilegio che la riforma dovrebbe accordare alla famiglia e al lavoro, al trasferimento dell’imposizione dalla persona alle cose, al passaggio del sistema dal complesso al semplice, al contrasto della speculazione, e così via. In effetti, si tratta di principi sui quali non si può non essere d’accordo. Il difficile sopravviene quando, poi, si tratta di trarre da tali principi le misure concrete da adottare, i versanti dove accentuare la pressione e quelli dove diminuirla: insomma, indicare concretamente chi subisce gli oneri maggiori e chi ne trae beneficio,al di là delle indicazioni di carattere generale. Le quali, se tali dovessero rimanere per un bel po’ di tempo, metterebbero a nudo – ma si spera che non sia così - l’intento di lucrare anche un vantaggio in previsione della prossima campagna elettorale per le “ regionali “.
Dopo il lavoro della task – force, si prevederebbe l’avvio di un confronto con i sindacati, secondo la linea della ricerca dell’”avviso comune” che, per la verità, sembra rieditare la concertazione degli anni novanta del secolo scorso, con i suoi punti di forza e quelli di debolezza ( questi ultimi, in particolare, con riferimento all’impianto neocorporativo e al rapporto tra Governo, parti sociali e Parlamento ).
Non v’è dubbio, comunque, che a una riforma dell’imposizione si debba addivenire. In questo senso, le due aliquote Irpef che si progetterebbero – 23 e 33 per cento – possono , per ora , essere assunte solo come uno dei criteri generali, dovendo la rivisitazione, se vuole essere un’operazione seria e solida, caratterizzarsi per la sua organicità. Se si intende compiere una svolta, questa deve essere all’altezza delle parole altisonanti che si pronunciano e riguardare l’insieme del sistema tributario. Deve essere una riforma che abbia la stessa oggettiva portata di quella realizzata nel 1971.
E, allora, non si può non partire dall’immensa area di evasione ed elusione, che non scomparirebbe per incanto solo con l’abbassamento delle aliquote. Quest’ultimo potrà concorrere a incidere sul fenomeno, ma di certo non varrà a ridimensionarlo nettamente. Viene qui in ballo il tema dell’economia sommersa e di quel che significa per il nostro Paese. Un tema con molteplici angolature e con una gamma di non facili problemi.
L’altro punto mai finora citato riguarda le rendite finanziarie e la necessità di mettere ordine nella relativa tassazione, riconducendo ad una aliquota comune le varie forme di investimento, anche per introdurre un principio di neutralità fiscale ai fini delle scelte del risparmiatore. Esiste, poi, in questo campo una serie di contraddizioni nella tassazione di banche e altri intermediari finanziari che, anche per evitare svantaggi competitivi in campo internazionale, andrebbero eliminate cogliendo l’occasione di una vasta operazione riformatrice.
Ma, a questo punto, c’è da chiedersi in quale rapporto si collocherebbe la revisione in questione con il tanto strombazzato federalismo fiscale, del quale per ora si attendono i decreti delegati attuativi e, soprattutto, si attende di conoscere i costi e la loro distribuzione. Finora il discorso è stato svolto in poesia; adesso è venuto il momento della prosa, dei dati, degli oneri. Se si instaura questo, del resto ineludibile, collegamento, allora ne consegue che la riforma del fisco avrà tempi lunghi, quelli insomma che sono stati prospettati in alcune dichiarazioni e che ne fanno coincidere il decollo con la parte finale della legislatura: di qui il contrasto con l’accelerazione che il Governo ha impresso in queste giornate, quasi come si trattasse di innovazioni da introdurre, al massimo , entro quest’anno. Ma, allora, come si supera questa contraddizione? Svolge la sua parte la ricordata preparazione delle elezioni regionali?
In ogni caso, i problemi non finiscono certamente qui. Una rivisitazione come quella di cui si parla, fondata sulle due aliquote Irpef ,costerebbe , secondo alcuni, insieme con altre misure progettate, sui 20 – 30 miliardi. E’ difficilmente ipotizzabile una redistribuzione di questo onere solo all’interno della stessa manovra riformatrice del fisco, spostandolo interamente sui consumi. E ciò, a parte ogni considerazione sulle aliquote in questione e sulla costituzionale necessità di impiantare un sistema fondato sulla progressività. Ma, se così stanno le cose, discende chiaramente che una riforma della specie non può fare astrazione da un intervento sulla spesa, considerato anche il livello del debito e del deficit che Tremonti ricorda frequentemente in questi giorni per consigliare prudenza.
Se ne potrebbe ricavare che, se si vuole prescindere dalla spesa, allora la riforma dell’imposizione non potrà che essere blanda oppure concentrare, rischiosamente, tutte le sue speranze nel sopravvenire di un maggiore gettito dopo l’abbassamento delle aliquote ( operazione sulla quale sono state esposte prima alcune considerazioni perplesse, quanto meno sul piano dei tempi ). Se, al contrario, si vuole una riforma vera, allora, questa non potrà non interessare anche la spesa e, in generale, l’esigenza di porre mano alle riforme di struttura. Dunque, una rivisitazione del sistema dell’entrata che richiede la contestuale riforma dell’uscita. Si potrebbe quasi dire che “ simul stant, simul cadent”. Ma quest’ultima riforma sollecita una generale revisione della politica economica, essendosi ora aperta una fase diversa nel superamento della crisi, nella quale, pur registrandosi importanti miglioramenti, permangono sostanziali fragilità, come è stato sottolineato dal Financial Stability Board.
La necessità di salvaguardare gli equilibri dei bilanci pubblici, tenendone sotto controllo gli oneri, è diffusa. Dopo la politica economica italiana che è stata definita flemmatica – e variamente giudicata – è venuto il momento di passare a una politica particolarmente attiva che sia in grado di fare i conti con i problemi della debole domanda interna. Il modo più efficace di procedere sarebbe quello di definire il quadro d’insieme della riforma fiscale, in una con gli interventi sulla spesa, e, poi, coerentemente adottare singole misure di avvicinamento agli obiettivi indicati, a partire, naturalmente, da questo anno. Prospettive certe, dunque, ma anche misure concrete progressivamente adottate a cominciare da quelle per la famiglia ( si vedano i dati resi noti ieri sul calo del potere d’acquisto) e per i redditi più bassi.
E’ un impegno di grande, forse eccezionale, momento? Si: ecco perché sarebbe necessario promuovere in Parlamento una grande convergenza politica.
Per ora, tuttavia, dominano i “ si dice” e le indiscrezioni, nell’attesa dei lavori di una task- force che sarebbe incaricata di trarre le concrete deduzioni dalle affermazioni di carattere generale del Ministro dell’Economia riguardanti il privilegio che la riforma dovrebbe accordare alla famiglia e al lavoro, al trasferimento dell’imposizione dalla persona alle cose, al passaggio del sistema dal complesso al semplice, al contrasto della speculazione, e così via. In effetti, si tratta di principi sui quali non si può non essere d’accordo. Il difficile sopravviene quando, poi, si tratta di trarre da tali principi le misure concrete da adottare, i versanti dove accentuare la pressione e quelli dove diminuirla: insomma, indicare concretamente chi subisce gli oneri maggiori e chi ne trae beneficio,al di là delle indicazioni di carattere generale. Le quali, se tali dovessero rimanere per un bel po’ di tempo, metterebbero a nudo – ma si spera che non sia così - l’intento di lucrare anche un vantaggio in previsione della prossima campagna elettorale per le “ regionali “.
Dopo il lavoro della task – force, si prevederebbe l’avvio di un confronto con i sindacati, secondo la linea della ricerca dell’”avviso comune” che, per la verità, sembra rieditare la concertazione degli anni novanta del secolo scorso, con i suoi punti di forza e quelli di debolezza ( questi ultimi, in particolare, con riferimento all’impianto neocorporativo e al rapporto tra Governo, parti sociali e Parlamento ).
Non v’è dubbio, comunque, che a una riforma dell’imposizione si debba addivenire. In questo senso, le due aliquote Irpef che si progetterebbero – 23 e 33 per cento – possono , per ora , essere assunte solo come uno dei criteri generali, dovendo la rivisitazione, se vuole essere un’operazione seria e solida, caratterizzarsi per la sua organicità. Se si intende compiere una svolta, questa deve essere all’altezza delle parole altisonanti che si pronunciano e riguardare l’insieme del sistema tributario. Deve essere una riforma che abbia la stessa oggettiva portata di quella realizzata nel 1971.
E, allora, non si può non partire dall’immensa area di evasione ed elusione, che non scomparirebbe per incanto solo con l’abbassamento delle aliquote. Quest’ultimo potrà concorrere a incidere sul fenomeno, ma di certo non varrà a ridimensionarlo nettamente. Viene qui in ballo il tema dell’economia sommersa e di quel che significa per il nostro Paese. Un tema con molteplici angolature e con una gamma di non facili problemi.
L’altro punto mai finora citato riguarda le rendite finanziarie e la necessità di mettere ordine nella relativa tassazione, riconducendo ad una aliquota comune le varie forme di investimento, anche per introdurre un principio di neutralità fiscale ai fini delle scelte del risparmiatore. Esiste, poi, in questo campo una serie di contraddizioni nella tassazione di banche e altri intermediari finanziari che, anche per evitare svantaggi competitivi in campo internazionale, andrebbero eliminate cogliendo l’occasione di una vasta operazione riformatrice.
Ma, a questo punto, c’è da chiedersi in quale rapporto si collocherebbe la revisione in questione con il tanto strombazzato federalismo fiscale, del quale per ora si attendono i decreti delegati attuativi e, soprattutto, si attende di conoscere i costi e la loro distribuzione. Finora il discorso è stato svolto in poesia; adesso è venuto il momento della prosa, dei dati, degli oneri. Se si instaura questo, del resto ineludibile, collegamento, allora ne consegue che la riforma del fisco avrà tempi lunghi, quelli insomma che sono stati prospettati in alcune dichiarazioni e che ne fanno coincidere il decollo con la parte finale della legislatura: di qui il contrasto con l’accelerazione che il Governo ha impresso in queste giornate, quasi come si trattasse di innovazioni da introdurre, al massimo , entro quest’anno. Ma, allora, come si supera questa contraddizione? Svolge la sua parte la ricordata preparazione delle elezioni regionali?
In ogni caso, i problemi non finiscono certamente qui. Una rivisitazione come quella di cui si parla, fondata sulle due aliquote Irpef ,costerebbe , secondo alcuni, insieme con altre misure progettate, sui 20 – 30 miliardi. E’ difficilmente ipotizzabile una redistribuzione di questo onere solo all’interno della stessa manovra riformatrice del fisco, spostandolo interamente sui consumi. E ciò, a parte ogni considerazione sulle aliquote in questione e sulla costituzionale necessità di impiantare un sistema fondato sulla progressività. Ma, se così stanno le cose, discende chiaramente che una riforma della specie non può fare astrazione da un intervento sulla spesa, considerato anche il livello del debito e del deficit che Tremonti ricorda frequentemente in questi giorni per consigliare prudenza.
Se ne potrebbe ricavare che, se si vuole prescindere dalla spesa, allora la riforma dell’imposizione non potrà che essere blanda oppure concentrare, rischiosamente, tutte le sue speranze nel sopravvenire di un maggiore gettito dopo l’abbassamento delle aliquote ( operazione sulla quale sono state esposte prima alcune considerazioni perplesse, quanto meno sul piano dei tempi ). Se, al contrario, si vuole una riforma vera, allora, questa non potrà non interessare anche la spesa e, in generale, l’esigenza di porre mano alle riforme di struttura. Dunque, una rivisitazione del sistema dell’entrata che richiede la contestuale riforma dell’uscita. Si potrebbe quasi dire che “ simul stant, simul cadent”. Ma quest’ultima riforma sollecita una generale revisione della politica economica, essendosi ora aperta una fase diversa nel superamento della crisi, nella quale, pur registrandosi importanti miglioramenti, permangono sostanziali fragilità, come è stato sottolineato dal Financial Stability Board.
La necessità di salvaguardare gli equilibri dei bilanci pubblici, tenendone sotto controllo gli oneri, è diffusa. Dopo la politica economica italiana che è stata definita flemmatica – e variamente giudicata – è venuto il momento di passare a una politica particolarmente attiva che sia in grado di fare i conti con i problemi della debole domanda interna. Il modo più efficace di procedere sarebbe quello di definire il quadro d’insieme della riforma fiscale, in una con gli interventi sulla spesa, e, poi, coerentemente adottare singole misure di avvicinamento agli obiettivi indicati, a partire, naturalmente, da questo anno. Prospettive certe, dunque, ma anche misure concrete progressivamente adottate a cominciare da quelle per la famiglia ( si vedano i dati resi noti ieri sul calo del potere d’acquisto) e per i redditi più bassi.
E’ un impegno di grande, forse eccezionale, momento? Si: ecco perché sarebbe necessario promuovere in Parlamento una grande convergenza politica.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.