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Gli effetti perversi del Titolo Quinto

La riforma Biagi si ferma in Regione

Il nuovo assetto istituzionale esige norme chiare su lavoro e formazione

di Alessandro Rapisarda - 05 maggio 2005

La modifica del titolo V della nostra Costituzione ha segnato profondamente la funzionalità amministrativa, ma ben poco l’asse del potere amministrativo. Quando una riforma varca la soglia della sua applicazione e diffonde su tutti (cittadini, enti, organi dello stato, ecc.) i suoi effetti, comprendere lo spirito che ha segnato il suo processo di formazione legislativa diventa essenziale, soprattutto quando questa apre una profonda ferita in quelle formazioni giuridiche, di diritto transitorio.

Purtroppo il dettato costituzionale in esame è stato oggetto di parecchie critiche, sia per le modalità di formazione giuridica, sia per l’ambiguità dello spirito “innovativo” contenuto nella stessa riforma.

Non potendo affrontare tutte le dinamiche e gli aspetti che hanno caratterizzato la difficile applicazione del nuovo titolo V della Costituzione, in quanto si trasformerebbe in un trattato giuridico di centinaia e centinaia di righe, cercherò di soffermarmi solo su di un aspetto particolare che ha coinvolto un’altra recente riforma del nostro ordinamento, la riforma del mercato del lavoro, “formazione e ripartizione di competenze tra Stato e regioni”.

Il D.lgs. n. 276 del 2003 (riforma Biagi) ha riscritto la regolamentazione dei rapporti di lavoro a contenuto formativo, contratto di apprendistato, contratto di inserimento e reinserimento. Tale regolamentazione sta creando non poche problematiche nella sua applicazione, questo a causa di una serie di motivazioni a volte interconnesse tra loro.

In primo luogo possiamo dire che la causa della difficile applicazione del titolo VI del nuovo testo legislativo, regolante i nuovi rapporti di lavoro con contenuto formativo, risulta investito da una molteplicità ed eterogeneità di fonti tra loro in concorrenza o in incerta articolazione gerarchica, quindi l’applicazione delle disposizioni normative diventato tortuoso in quanto ci si trova di fronte ad un uso frequente del rinvio a cascata ad altre norme, così da rendere ancora più difficoltosa la conoscibilità del contenuto regolante del nuovo dettato normativo.

In secondo luogo, va avvertito che il D.lgs. n. 276 del 2003 in esame, mentre per un verso attribuisce all'apprendistato la funzione di strumento formativo «per eccellenza», dall'altro, rinvia la regolamentazione degli aspetti «burocratici» della formazione alle norme regionali, vincolandole ad intese con altri soggetti istituzionali. Diversamente, per il contratto di inserimento, attesa la finalità occupazionale, il ruolo delle regioni viene meno lasciando il posto a quello più incisivo delle parti sociali, quindi degli enti bilaterali che acquisiscono prerogative contrattuali. Ad ogni buon conto, la dottrina ha rilevato che quella dei contratti «misti» «formativi» costituisce una zona di confine tra competenze statali e regionali, nelle quali più alto è il rischio di sovrapposizioni normative e di contenzioso tra amministrazione centrale e periferica.

Ciò a maggior ragione, a seguito del nuovo art. 117 Cost. che riorganizza in maniera diversa dal passato le competenze dello Stato e delle Regioni in materia di lavoro, istruzione e formazione professionale. A tal fine si realizza una forte accentuazione del ruolo delle seconde cui viene riconosciuta ampia potestà legislativa in materia di lavoro, fino ad oggi riservata quasi esclusivamente al legislatore nazionale.
Infatti, le regioni hanno ora competenza legislativa esclusiva nella materia concernente l'istruzione e la formazione professionale (art. 117 Cost., co. 3), fatti salvi i profili relativi alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti (a tutti i cittadini) su tutto il territorio nazionale, da parte dello Stato (art. 117, co. 2, lett. m). Si aggiunga inoltre che le regioni hanno potestà legislativa per il diritto amministrativo del lavoro e che, per effetto del decentramento, realizzatosi a seguito dei provvedimenti legislativi del 1997 (1. 15 marzo 1997, n. 59 e del D.lgs. 23 dicembre 1997), alle stesse sono state affidate le varie forme di collocamento e, in generale, i servizi per l'impiego. La legge delega, cit. 35, secondo la quale “alla luce della riforma dell’art. 117 Cost. il potere legislativo delle regioni può consentire alle stesse di sganciarsi dal modello predisposto dal D.lgs n.469 del 1997. La compressione lamentata in passato dalle regioni deve però essere spesso legittimata dalla Consulta del loro potere organizzativo e di autonomia nella devoluzione di funzioni e compiti agli enti locali, che trova oggi rimedio nell’originario potere legislativo delle regioni in tema di tutela e sicurezza del lavoro di cui certamente fa parte il c.d. diritto amministrativo del lavoro. Non vi sono dubbi, pertanto, sull'ampliamento delle competenze delle regioni sicché le stesse possono regolare autonomamente il contenuto e le modalità di attuazione delle attività formative, oltre ché promuovere percorsi di integrazione tra istruzione e formazione professionale.
Ed invero, il confine che il legislatore regionale non può superare risiede nella regolazione dei rapporti di lavoro, che è di competenza dello Stato, perché deve, pur sempre, rispettare il principio costituzionale di uguaglianza. Infatti le leggi regionali non potrebbero legittimamente derogare alla legislazione nazionale del lavoro, se non a condizione che, come avvertono i giudici costituzionali, non sia ravvisabile una ragionevole giustificazione che escluda la violazione del fondamentale principio di uguaglianza.

Ad ogni modo, sembra che la Consulta abbia offerto delle indicazioni precise circa la ripartizione di competenze tra Stato e regioni anche in materia di contratti formativi, così contribuendo a definire un raccordo virtuoso che tiene conto anche dei problemi posti dal nuovo sistema di istruzione e formazione professionale.

Di fatto è passato più i un anno dall’entrata in vigore del D.lgs 276/2003 ma le regioni e la contrattazione collettiva non danno segni concreti di una regolamentazione in materia di formazione, atta all’applicazione del nuovo contratto di apprendistato. Questo causa una mancata applicazione nella parte sostanziale della riforma, ovvero nella parte che prevede una rimodulazione dei requisiti, finalizzati al riconoscimento dei soggetti interessati a tale tipologia contrattuale ed una zoppicante applicazione della parte formale della stessa, nella parte in cui prevede l’abrogazione di alcuni adempimenti e limiti previsti dalla norma previgente per l’utilizzo di tale fattispecie giuridica di rapporto di lavoro.

Considerato “l’ormai risolto”, conflitto di competenza tra regione e Stato in materia di rapporto di lavoro, a quando l’applicazione di queste tipologie contrattuali, importanti per il funzionamento organico delle aziende e quindi dell’economia del nostro Paese?

Alla luce dei risultati delle amministrative svoltesi nei giorni del 3, 4 aprile 2005 ci sarà un ulteriore frenata all’applicazione della norma trattata, a causa dell’origine “partitica” della riforma del mercato del lavoro, chiaramente contrastante on le posizioni “partitiche” di molti vertici regionali?

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