L'editoriale di Società Aperta
La rabbia dopo la sfiducia. Il disordine è dietro l'angolo
Basta con i governi indispensabili ma deludenti. Il rischio è la rivolta del Paesedi Enrico Cisnetto - 26 luglio 2013
Governabilità contro democrazia? Siamo ridotti a questo inaccettabile baratto? Il dibattito politico italiano, dopo essersi fermato nell’attesa (vana) che da qualche parte spuntasse finalmente la capacità di aggredire i problemi della più grave crisi strutturale della storia della Repubblica, ora con la lettera aperta di Fausto Bertinotti al Corriere della Sera sembra aver preso una piega diversa. Alta (finalmente), ma potenzialmente fuorviante. Bertinotti sostiene che la presidenza della Repubblica ha varcato i confini che la perimetrano fino a indurre Napolitano a “sospendere” la normale dinamica democratica quando, minacciando le sue dimissioni, fa intendere che non esiste alcuna alternativa al governo Pd-Pdl, tantomeno le elezioni anticipate. Tesi espressa con il consueto garbo, ma tagliente come una lama di coltello, cui ha fatto eco il mondo che fin dall’esordio del governo Letta si è messo di traverso in nome del principio “mai con Berlusconi”. Il cosiddetto “partito di Repubblica” ha infatti colto al balzo le parole di Bertinotti – che pure, essendo un garantista in tema di giustizia, non ha mai “militato” in quel partito, ne è mai stato da esso ben visto – per sostenere che chi giustifica, o peggio sostiene, l’attuale esecutivo in nome della suprema esigenza di stabilità politico-istituzionale, si macchia della grave colpa di mortificare la dialettica parlamentare. A tutto ciò si è replicato – usando la sponda Corriere della Sera – sostenendo che trattasi di falso patente, e che comunque chi sposa questa tesi dimentica che dall’autunno del 2011 la vita nazionale ha subito un vulnus oggettivo, fino al punto che in quel novembre che vide l’uscita di scena del governo Berlusconi e l’avvento di quello tecnico di Monti sarebbe stato scritto e tenuto pronto all’uso un decreto, scritto con l’ausilio della Banca d’Italia, di chiusura dei mercati finanziari per pericolo di default. Tesi non meno tagliente, considerato che di questo drammatico provvedimento finora non si era mai parlato e che se veramente fosse esistito – ma ovviamente non c’è da dubitare delle buone fonti di Ferruccio de Bortoli – esso avrebbe rappresentato una forma estrema di esercizio delle prerogative governo, perché norma da stato di guerra applicata in un contesto di mercati liberi e integrati. Insomma, a Bertinotti che sostiene “attenzione, state mettendo le mutande alla democrazia”, si replica “no, cosa dici, non ti rendi che la situazione è così grave che avremmo anche potuto compiere un atto inaudito?”.
Chi ha ragione? Fermo restando che in questa dialettica non c’è ombra di indicazione di come si dovrebbero risolvere i nodi che continuano a stringerci il collo, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza partendo dal presupposto che le due tesi potrebbero essere solo apparentemente in contrasto. Bertinotti ha ragione quando dice che si il Quirinale ha varcato le linee di confine, è inutile negarlo. Lo ha fatto in talune circostanze durante il governo Berlusconi, lo ha fatto con tutta evidenza quando si è inventato il governo Monti, ha fatto cosa legittima ma irrituale quando ha accettato il secondo mandato, lo ha clamorosamente fatto quando ha legato così tanto il nuovo settennato alla nascita e mantenimento in vita dell’esecutivo di grande coalizione, tanto che in questo spazio non abbiamo avuto pudore a parlare di “governo Napolitano-Letta”. Ma, come abbiamo detto più volte, in (quasi) tutte queste circostanze ha fatto bene, più che bene. Nell’interesse del Paese. Anzi, noi di TerzaRepubblica siamo stati i primi, in tempi non sospetti, a parlare dell’opportunità che ci fosse un Napolitano-bis, tanto che quando poi s è effettivamente palesato – nel modo maldestri e tardivo che sappiamo – non abbiamo esitato a commentare “meglio tardi, e male, che mai”. Dunque, non c’è contrasto tra la tesi bertinottiana e il suo opposto, sono entrambe fondate. Anche perché da parte nostra nulla osta ne è mai ostato alla convergenza delle forze, convinti come siamo sempre stati che il declino italiano, aggravato dalla crisi mondiale ed europea, non poteva e non può essere affrontato in una condizione di dialettica politica esasperata (in qualunque forma, figuriamoci quella del bipolarismo armato degli ultimi 20 anni). Anzi, è da tempi non sospetti che predichiamo la necessità della grande coalizione. Semmai la vera questione, adesso, è un’altra: possiamo andare avanti con governi – Monti prima, Letta ora – tanto indispensabili quanto deludenti?
Se è vero, come è vero, che entrambi non avevano alternative se non il baratro, è lecito in nome di questo stato di necessità, seppur estremo, sorbirsi un insopportabile tasso di indecisionismo che finisce, lasciando marcire i problemi, per perpetuare le ragioni che hanno portato a quelle drammatiche emergenze che hanno giustificato le “strane maggioranze”? La risposta non è scontata: se una cosa è indispensabile, non perde questa sua natura perché poi risulta deludente. Ma è vero anche il contrario: l’essere deludenti alla lunga può far venire meno le ragioni dell’indispensabilità. Il busillis è parzialmente risolvibile guardando alle alternative: a Monti non ce n’erano (ma si sapeva che era un’esperienza a termine), a Letta un’immaginata (e immaginifica) maggioranza Pd-Grillo. Cioè, niente. Ecco perché anche chi, come noi, da sempre scalpita per vedere attuate riforme strutturali e chiede a gran voce un vero e proprio piano Marshall, poi finisce coll’esercitare una pazienza infinita.
Solo che è la pazienza del Paese che è bella che esaurita. Questo, al di là del dibattito alto ma accademico che si è scatenato in questi giorni, è ciò che va compreso, a cominciare dal presidente Napolitano e dal premier Letta: l’emergenza democratica evocata da Bertinotti potrebbe presto assumere le sembianze di una rivolta generalizzata da parte di un paese sì sfiduciato, ma anche sempre più ferocemente arrabbiato. Occhio.
Chi ha ragione? Fermo restando che in questa dialettica non c’è ombra di indicazione di come si dovrebbero risolvere i nodi che continuano a stringerci il collo, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza partendo dal presupposto che le due tesi potrebbero essere solo apparentemente in contrasto. Bertinotti ha ragione quando dice che si il Quirinale ha varcato le linee di confine, è inutile negarlo. Lo ha fatto in talune circostanze durante il governo Berlusconi, lo ha fatto con tutta evidenza quando si è inventato il governo Monti, ha fatto cosa legittima ma irrituale quando ha accettato il secondo mandato, lo ha clamorosamente fatto quando ha legato così tanto il nuovo settennato alla nascita e mantenimento in vita dell’esecutivo di grande coalizione, tanto che in questo spazio non abbiamo avuto pudore a parlare di “governo Napolitano-Letta”. Ma, come abbiamo detto più volte, in (quasi) tutte queste circostanze ha fatto bene, più che bene. Nell’interesse del Paese. Anzi, noi di TerzaRepubblica siamo stati i primi, in tempi non sospetti, a parlare dell’opportunità che ci fosse un Napolitano-bis, tanto che quando poi s è effettivamente palesato – nel modo maldestri e tardivo che sappiamo – non abbiamo esitato a commentare “meglio tardi, e male, che mai”. Dunque, non c’è contrasto tra la tesi bertinottiana e il suo opposto, sono entrambe fondate. Anche perché da parte nostra nulla osta ne è mai ostato alla convergenza delle forze, convinti come siamo sempre stati che il declino italiano, aggravato dalla crisi mondiale ed europea, non poteva e non può essere affrontato in una condizione di dialettica politica esasperata (in qualunque forma, figuriamoci quella del bipolarismo armato degli ultimi 20 anni). Anzi, è da tempi non sospetti che predichiamo la necessità della grande coalizione. Semmai la vera questione, adesso, è un’altra: possiamo andare avanti con governi – Monti prima, Letta ora – tanto indispensabili quanto deludenti?
Se è vero, come è vero, che entrambi non avevano alternative se non il baratro, è lecito in nome di questo stato di necessità, seppur estremo, sorbirsi un insopportabile tasso di indecisionismo che finisce, lasciando marcire i problemi, per perpetuare le ragioni che hanno portato a quelle drammatiche emergenze che hanno giustificato le “strane maggioranze”? La risposta non è scontata: se una cosa è indispensabile, non perde questa sua natura perché poi risulta deludente. Ma è vero anche il contrario: l’essere deludenti alla lunga può far venire meno le ragioni dell’indispensabilità. Il busillis è parzialmente risolvibile guardando alle alternative: a Monti non ce n’erano (ma si sapeva che era un’esperienza a termine), a Letta un’immaginata (e immaginifica) maggioranza Pd-Grillo. Cioè, niente. Ecco perché anche chi, come noi, da sempre scalpita per vedere attuate riforme strutturali e chiede a gran voce un vero e proprio piano Marshall, poi finisce coll’esercitare una pazienza infinita.
Solo che è la pazienza del Paese che è bella che esaurita. Questo, al di là del dibattito alto ma accademico che si è scatenato in questi giorni, è ciò che va compreso, a cominciare dal presidente Napolitano e dal premier Letta: l’emergenza democratica evocata da Bertinotti potrebbe presto assumere le sembianze di una rivolta generalizzata da parte di un paese sì sfiduciato, ma anche sempre più ferocemente arrabbiato. Occhio.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.