Legge elettorale e sistemi elettorali misti
La quadratura del cerchio
Oltre la logica referendaria. Proposte per un Parlamento “ideale”di Livio Ghersi - 06 dicembre 2007
Quando si parla di legge elettorale, i politici di professione guardano soltanto ai propri interessi e non sono disposti a ragionare. La cosa strana è che si neghino al ragionamento pure quanti non sono coinvolti direttamente: studiosi di diritto costituzionale, pubblicisti che scrivono in giornali e periodici "di opinione", cioè "non di partito", cittadini di null’altro preoccupati che del buon funzionamento delle istituzioni e di perseguire ciò che è meglio per la cosa pubblica (la res publica). Anche in questo campo, in cui in teoria il dialogo costruttivo dovrebbe essere possibile, prevalgono i sospetti reciproci, si fanno i processi alle intenzioni, ci si divide fra fautori del "maggioritario" in astratto, o del "proporzionale", sempre in astratto.
Il primo dato da cui, secondo me, bisognerebbe partire è che molti sistemi elettorali conosciuti, sperimentati e perfettamente funzionanti altrove, sono sistemi misti, con caratteristiche in parte maggioritarie, in parte proporzionali. Tipico sistema misto è quello previsto dalla legge elettorale per il Bundestang in Germania. Quanti "straparlano" di sistema tedesco, senza conoscerlo, tralasciano disinvoltamente di considerare un punto fondamentale: in Germania 299 deputati (la metà del totale del Bundestag) sono eletti in altrettanti collegi (Wahlkreise) uninominali, con sistema maggioritario, il che significa che il seggio viene attribuito a chi prende la maggioranza relativa dei voti in ciascun collegio. Questo dato è tanto importante che la clausola di sbarramento (Sperrklausel), fissata al 5 per cento, non si applica ai partiti che conquistano tre mandati diretti nei collegi uninominali.
Sistema misto era pure quello disciplinato dalla legge 4 agosto 1993, n. 277, con cui si è votato in Italia in tre successive elezioni politiche, dalla dodicesima alla quattordicesima legislatura della Camera, cioè dal 1994 al 2001. La legge n. 277/1993 prevedeva appunto che 475 seggi (corrispondenti al 75 per cento del totale della Camera) fossero attribuiti in altrettanti collegi uninominali. Perché quel sistema elettorale, il cui nome resta legato al ministro Mattarella, non ha dato buona prova di sé? Perché c’era una quota di seggi attribuiti con metodo proporzionale, sostengono gli assertori del "maggioritario" a tutti i costi, quelli che io chiamo le "vestali" del maggioritario. Viceversa, secondo me, il primo errore sta nell’avere previsto il sistema del collegio uninominale a turno unico: questo consentiva ai ceti dirigenti di partitini e micro-partiti di sedersi al tavolo delle trattative con i grandi partiti, utilizzando come potere negoziale ipotetici pacchetti di voti, reali o più spesso virtuali, comunque descritti come determinanti per assicurare la vittoria, o per determinare la sconfitta, in ciascun collegio. Una volta che questi partitini o micro-partiti riuscivano ad inserirsi nelle due coalizioni maggiori ed a fare eleggere propri rappresentanti nelle assemblee elettive, il gioco era fatto: avevano garantite visibilità per l’azione politica e risorse finanziarie che generosamente l’ordinamento giuridico accorda, sotto varie forme, ai titolari di cariche elettive. Per non parlare dello sciagurato meccanismo previsto per il rimborso delle spese elettorali sostenute. Nello stesso periodo di tempo in cui la legge elettorale disponeva che soltanto le liste che superavano il 4 % dei voti validi in ambito nazionale potessero ottenere seggi, il meccanismo dei rimborsi (ai sensi dell’articolo 2 della legge 3 giugno 1999, n. 157) era congegnato nel modo seguente: qualunque movimento politico con una cifra elettorale nazionale superiore all’1 per cento aveva titolo per partecipare al riparto del fondo istituito presso la Camera dei deputati. Così si arrivava al paradosso di incentivare la proliferazione delle liste nelle consultazioni elettorali, perché il fatto di presentarsi senza successo non si traduceva necessariamente in un danno dal punto di vista economico. Anzi! Così la legge n. 277/1993 ha sortito l’effetto di aumentare la frammentazione politica, invece di ridurla: risultato certamente non brillante per una legge di impianto prevalentemente maggioritario.
Il secondo errore sta nel meccanismo cosiddetto dello "scorporo"; questo veniva sistematicamente aggirato mediante l’espediente delle liste cosiddette "civetta" e, dunque, finiva anch’esso per tradursi in un incentivo alla frammentazione della rappresentanza. Il trucco consisteva nel collegare un candidato sicuramente vincente in un collegio, non alla lista circoscrizionale del partito di cui faceva parte, ma ad una lista "civetta" (una fictio, rilevante soltanto ai fini elettorali). Così i voti di quel candidato eletto non venivano "scorporati", cioè sottratti alla quota di voti ottenuti dalle liste dei partiti maggiori della coalizione, la quale otteneva qualche seggio in più fra quelli assegnati con metodo proporzionale nelle circoscrizioni. La legge 21 dicembre 2005, n. 270, con la quale si è votato nelle elezioni del 9 e 10 aprile 2006, è una pessima legge elettorale. Non mi dilungo in questa sede, perché ne ho già analizzato minutamente le caratteristiche in altre occasioni. Chi vuole ragguagli, non ha che da chiedermeli. Proprio perché sono convinto che si tratti di una pessima legge elettorale, non ho mai creduto nella bontà della soluzione prospettata dal professor Giovanni Guzzetta e sostenuta da altre stimabili persone, quali Mario Segni. Il referendum abrogativo lascerebbe immodificato l’impianto di quella legge e non restituirebbe agli elettori la possibilità di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. L’effetto, politicamente molto rilevante, dell’eventuale vittoria del SI nel referendum sarebbe quello di garantire una maggioranza numerica nella Camera dei deputati, quantificata in 340 seggi, non alla coalizione più votata — come avvenuto nelle elezioni del 2006 — ma alla «singola lista che ha conseguito il maggior numero di voti». Eliminando ogni riferimento alle coalizioni, i sostenitori della via referendaria vorrebbero costringere tutte le forze politiche, a Destra e a Sinistra, a ridursi a due soli partiti fra loro alternativi, pervenendo così ad un sistema bipartitico imposto "per legge". Uno studioso il cui giudizio è realmente autorevole per meriti scientifici, Giovanni Sartori, ha scritto, con felice sintesi giornalistica: «noi stiamo fabbricando "poli" sempre più eterogenei al loro interno e blindati al loro esterno».
La logica dei referendari è sempre quella della costrizione: dai due "poli" blindati, ma ancora composti da più liste fra loro coalizzate, si dovrebbe passare a due grandi contenitori elettorali che pure nella forma, cioè nelle modalità di presentazione, non lasciano spazio ad altro. O si sta di qua, o si sta di là. La politica, giustamente, si ribella a questi artifizi di ingegneria istituzionale, concepibili unicamente da chi ha un senso storico pari a zero.
Si teme che una eventuale nuova legge elettorale, che il Parlamento riuscisse ad approvare nelle difficilissime condizioni attuali, sarebbe cucita "su misura" sugli interessi dei due partiti maggiori: il Partito Democratico, da un lato, ed il Partito del Popolo delle Libertà dall’altro. In realtà, sia Veltroni che Berlusconi, sanno benissimo che i loro due rispettivi partiti non rappresentano, insieme, più del 55 % dell’elettorato (60 % nella migliore delle ipotesi). Possono riuscire nel loro intento soltanto se non introducono "forzature" e propongono una soluzione razionale, che raccolga un ampio consenso. I due partiti maggiori hanno necessità di trovare alleati al momento di scrivere le "regole del gioco"; è l’unico modo per consolidare la loro naturale leadership, pure nel prossimo futuro.
Ci sono almeno altre cinque formazioni politiche che, secondo me, oggi hanno titolo e chances (in termini di capacità di raccogliere il consenso) per essere rappresentate in Parlamento. Le cito da Destra a Sinistra: 1) Alleanza Nazionale; 2) la Lega Nord; 3) un partito moderato, di ispirazione cattolica, ma non confessionale (l’attuale UDC, più molto altro); 4) un partito moderato, di ispirazione laica, ma non anticlericale, collegato in Europa all’ELDR, cioè ai liberali europei (si tratterebbe di ridare ruolo e dignità politica ad una miriade di frammenti: PLI, PRI, Repubblicani europei, parte di Italia dei Valori, parte dei Radicali, e molto altro che dovrrebbe venire dalla borghesia delle imprese e delle professioni); 5) la Sinistra unita, comprensiva dei post comunisti e degli ambientalisti, o Verdi che dir si voglia. Per quanto riguarda i Socialisti, se ci fosse un senso logico nella politica, la loro collocazione naturale dovrebbe essere nel Partito Democratico; questo dovrebbe valere pure per la parte prevalente dei Radicali. Per riassumere, il mio Parlamento "ideale" non è composto da due partiti, ma da sette partiti, ciascuno erede consapevole di una tradizione storica di riferimento e ciascuno collegato con le principali famiglie politiche europee. Delle cinque formazioni politiche che ho richiamato soltanto due hanno una collocazione rigida nello scenario politico: Alleanza Nazionale, che sta a Destra, e la Sinistra unita, che, per definizione, sta a Sinistra. Le altre tre formazioni, Lega, moderati di ispirazione cattolica, liberal-repubblicani, potrebbero stipulare alleanze ora con il Partito del Popolo delle Libertà, ora con il Partito Democratico, sulla base di valutazioni inerenti ai programmi ed alle circostanze storiche. Normalmente le alleanze si dichiarano prima delle elezioni e normalmente si rispettano per l’intera durata di una legislatura. I cittadini elettori, infatti, non gradiscono partiti troppo "ballerini" e li puniscono togliendo loro il consenso nelle successive elezioni. Così avviene un po’ ovunque nella civile Europa e non si vede perché l’Italia dovrebbe distinguersi. Non è impossibile concepire una buona legge elettorale che nella realtà politica italiana odierna abbia un impatto meno traumatico del recepimento puro e semplice del modello tedesco. Una legge elettorale sarà tanto migliore, quanto più consentirà flessibilità operativa. L’idea è quella di ripristinare i collegi uninominali, che sono il veicolo naturale delle alleanze politiche, ma stavolta prevedendo un turno di primarie obbligatorio, disciplinato dalla legge. Resterebbe, come è tipico dei sistemi misti, una ridotta quota di seggi da assegnare con metodo proporzionale, per consentire che abbiano comunque rappresentanza parlamentare i partiti con maggiore radicamento nella dimensione regionale.
Considerato che, secondo la Costituzione vigente, dodici deputati devono essere eletti nella Circoscrizione Estero, si propone che 432 deputati (cioè in numero corrispondente al 70 % di 618) siano eletti in altrettanti collegi uninominali. Tra questi, un collegio coincide con il territorio della Regione autonoma della Val d’Aosta. Di conseguenza, ciascuno degli altri 431 collegi corrisponderebbe, in media, ad una popolazione di 131.963 abitanti (popolazione legale determinata nel censimento del 2001). Il turno delle elezioni primarie di collegio dovrebbe tenersi la seconda domenica precedente quella fissata per le elezioni vere e proprie. I candidati nelle primarie avrebbero tre possibilità: a) presentarsi con il contrassegno di una alleanza politica; b) presentarsi col contrassegno di un singolo partito, quando questo preferisca non allearsi, oppure quando più partiti, i quali pure sono intenzionati ad allearsi, vogliano utilizzare il turno delle primarie per provare la capacità di propri candidati di raccogliere il consenso nel dato collegio; c) presentarsi senza contrassegno, opportunità che potrebbe essere colta anche da eventuali politici in dissenso rispetto ai partiti di precedente appartenenza. In questo ultimo caso nella scheda di votazione, al posto del simbolo, verrebbe riprodotto un cerchio bianco riportante al centro il cognome e nome del candidato e, in basso, la dicitura «indipendente». La possibilità di candidature indipendenti toglierebbe a tutti, anche alle grandi alleanze fra partiti, il potere esercitato dall’imperatore Caligola quando trasformò il proprio cavallo in un senatore. I candidati nelle primarie, sia quelli che si presentano in rappresentanza di alleanze politiche, o di singoli partiti, sia quelli che si presentano come indipendenti, dovrebbero pagare una cifra, su un conto intestato al Ministero dell’Interno, come contributo per le spese di organizzazione delle elezioni primarie. Stando al valore attuale dell’euro, questo contributo non dovrebbe essere inferiore a cinquemila euro. Sarebbe a fondo perduto, in nessun caso rimborsabile. Così le primarie non consterebbero alcunchè alla collettività. Ogni singola candidatura dovrebbe essere sottoscritta da non meno di 250 e da non più di 500 elettori residenti nel collegio, con le firme debitamente autenticate. Il Ministero dell’Interno avrebbe il compito di verificare, con l’utilizzo di sistemi informatici, che uno stesso elettore non sottoscriva la candidatura di più di un candidato.
Verrebbero ammessi al turno elettorale vero e proprio tutti i candidati che conseguano una cifra elettorale non inferiore al 12 % del totale dei voti validi espressi nel collegio. In nessun caso, potrebbe essere candidato nel collegio chi non è prima passato attraverso la procedura di selezione delle primarie. In questo modo si otterrebbero due vantaggi: 1) verrebbe restituito potere agli elettori, consentendo loro di selezionare i candidati nel collegio uninominale nelle elezioni primarie; 2) si eviterebbe che i partiti minori possano esercitare un potere di condizionamento o di ricatto per ottenere candidature nei collegi uninominali. Dopo l’effettuazione delle votazioni, il seggio del collegio sarebbe attribuito al candidato che abbia ottenuto il maggior numero di voti validi espressi. Si propone che i restanti 186 deputati (cioè in numero corrispondente al 30 % di 618) siano eletti in proporzione ai voti ottenuti da liste di partito fra loro concorrenti. Sarebbero escluse dalla rappresentanza le liste che non superano la percentuale del 5 % dei voti validi espressi. Tuttavia — e in ciò consiste la novità della proposta rispetto a quanto previsto dalla legge elettorale tedesca — questo 5 % non verrebbe considerato su base nazionale, ma in ambito circoscrizionale. A questo scopo, il territorio del Paese sarebbe ripartito in tredici grandi circoscrizioni, corrispondenti ad aree territoriali omogenee. In questo modo sarebbero salvaguardati i partiti effettivamenti radicati in certe zone geografiche e si renderebbero inutili alleanze innaturali, tipo quella fra la Lega Nord ed il siciliano Movimento per l’Autonomia.
Ipotizziamo le seguenti tredici circoscrizioni: 1) Nord-Ovest = Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria; popolazione legale: 5.906.008; seggi spettanti: 19;
2) Lombardia = popolazione legale: 9.032.554; seggi spettanti: 29;
3) Nord-Est = Trentino - Alto Adige, Veneto, Friuli - Venezia Giulia; popolazione legale: 6.651.474; seggi spettanti: 22;
4) Emilia - Romagna = popolazione legale: 3.983.346; seggi spettanti: 13;
5) Toscana = popolazione legale: 3.497.806; seggi spettanti: 11;
6) Marche e Umbria = popolazione legale: 2.296.407; seggi spettanti: 8;
7) Sardegna = popolazione legale: 1.631.880; seggi spettanti: 5;
8) Lazio = popolazione legale: 5.112.413; seggi spettanti: 17;
9) Abruzzo e Molise = popolazione legale: 1.582.993; seggi spettanti: 5;
10) Campania = popolazione legale: 5.701.931; seggi spettanti: 19;
11) Puglia = popolazione legale: 4.020.707; seggi spettanti: 13;
12) Basilicata e Calabria = popolazione legale: 2.609.234; seggi spettanti: 9;
13) Sicilia = popolazione legale: 4.968.991; seggi spettanti: 16;
Totale Italia = popolazione legale: 56.995.744; seggi spettanti: 186.
Ogni elettore disporrebbe di due schede, una per la scelta di un candidato nel collegio uninominale, l’altra per il voto ad una lista fra quelle presentate nella circoscrizione. E’ importante evidenziare che il sistema elettorale proposto non prevede alcun collegamento fra il voto espresso per i candidati nei collegi uninominali ed il voto espresso per le liste circoscrizionali: nel senso che l’esito del primo sarebbe indifferente per il secondo. Non ci sarebbe alcun meccanismo di "scorporo". Anche questa è una soluzione tendente a contenere la frammentazione della rappresentanza: in ogni circoscrizione verrebbe "fotografata" la realtà dei rapporti di forza fra i partiti, e le liste più votate otterrebbero più seggi. Pure i partiti fra loro alleati nei collegi uninominali potrebbero contare il proprio rispettivo consenso in sede circoscrizionale. Ovviamente, chi è candidato in un collegio uninominale non potrebbe essere candidato in altri collegi, né in liste circoscrizionali, pena la nullità dell’elezione.
Ciascuna lista ammessa all’attribuzione dei seggi avrebbe diritto a tanti eletti quante volte il quoziente elettorale circoscrizionale è compreso nella propria cifra elettorale. I seggi che non possono essere attribuiti per insufficienza di quoziente sarebbero assegnati alle liste con i maggiori resti, nell’ambito della circoscrizione medesima. Nel limite di seggi spettanti a ciascuna lista, i candidati sarebbero proclamati eletti secondo l’ordine di presentazione nella lista. Ciò consentirebbe pure l’applicazione di meccanismi volti a promuovere il riequilibrio della rappresentanza fra i sessi. In circoscrizioni così dimensionate le liste dei partiti di medie dimensioni avrebbero concrete chances di ottenere rappresentanza.
Si obietterà che il sistema elettorale ipotizzato non garantisce una maggioranza numerica in Parlamento. Invero, né la legge elettorale inglese, né quella tedesca, prevedono alcuna maggioranza numerica garantita. Non bisogna stancarsi di ricordare che la legge elettorale Acerbo (quella applicata nelle elezioni del 1924), per fortuna, non è l’unico modello di sistema elettorale cui ispirarsi. Le stesse disposizioni, con pochi adattamenti, potrebbero valere per l’elezione del Senato. I collegi uninominali per l’elezione del Senato potrebbero essere quantificati in 216 (cioè in numero corrispondente al 70 % di 309). I senatori da eleggere in proporzione ai voti ottenuti da liste presentate nelle Regioni potrebbero essere quantificati in 93 (cioè in numero corrispondente al 30 % di 309). Ovviamente, per rispettare la disposizione dell’articolo 57 della Costituzione, le circoscrizioni per l’elezione del Senato dovrebbero coincidere col territorio delle Regioni.
Il secondo errore sta nel meccanismo cosiddetto dello "scorporo"; questo veniva sistematicamente aggirato mediante l’espediente delle liste cosiddette "civetta" e, dunque, finiva anch’esso per tradursi in un incentivo alla frammentazione della rappresentanza. Il trucco consisteva nel collegare un candidato sicuramente vincente in un collegio, non alla lista circoscrizionale del partito di cui faceva parte, ma ad una lista "civetta" (una fictio, rilevante soltanto ai fini elettorali). Così i voti di quel candidato eletto non venivano "scorporati", cioè sottratti alla quota di voti ottenuti dalle liste dei partiti maggiori della coalizione, la quale otteneva qualche seggio in più fra quelli assegnati con metodo proporzionale nelle circoscrizioni. La legge 21 dicembre 2005, n. 270, con la quale si è votato nelle elezioni del 9 e 10 aprile 2006, è una pessima legge elettorale. Non mi dilungo in questa sede, perché ne ho già analizzato minutamente le caratteristiche in altre occasioni. Chi vuole ragguagli, non ha che da chiedermeli. Proprio perché sono convinto che si tratti di una pessima legge elettorale, non ho mai creduto nella bontà della soluzione prospettata dal professor Giovanni Guzzetta e sostenuta da altre stimabili persone, quali Mario Segni. Il referendum abrogativo lascerebbe immodificato l’impianto di quella legge e non restituirebbe agli elettori la possibilità di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. L’effetto, politicamente molto rilevante, dell’eventuale vittoria del SI nel referendum sarebbe quello di garantire una maggioranza numerica nella Camera dei deputati, quantificata in 340 seggi, non alla coalizione più votata — come avvenuto nelle elezioni del 2006 — ma alla «singola lista che ha conseguito il maggior numero di voti». Eliminando ogni riferimento alle coalizioni, i sostenitori della via referendaria vorrebbero costringere tutte le forze politiche, a Destra e a Sinistra, a ridursi a due soli partiti fra loro alternativi, pervenendo così ad un sistema bipartitico imposto "per legge". Uno studioso il cui giudizio è realmente autorevole per meriti scientifici, Giovanni Sartori, ha scritto, con felice sintesi giornalistica: «noi stiamo fabbricando "poli" sempre più eterogenei al loro interno e blindati al loro esterno».
La logica dei referendari è sempre quella della costrizione: dai due "poli" blindati, ma ancora composti da più liste fra loro coalizzate, si dovrebbe passare a due grandi contenitori elettorali che pure nella forma, cioè nelle modalità di presentazione, non lasciano spazio ad altro. O si sta di qua, o si sta di là. La politica, giustamente, si ribella a questi artifizi di ingegneria istituzionale, concepibili unicamente da chi ha un senso storico pari a zero.
Si teme che una eventuale nuova legge elettorale, che il Parlamento riuscisse ad approvare nelle difficilissime condizioni attuali, sarebbe cucita "su misura" sugli interessi dei due partiti maggiori: il Partito Democratico, da un lato, ed il Partito del Popolo delle Libertà dall’altro. In realtà, sia Veltroni che Berlusconi, sanno benissimo che i loro due rispettivi partiti non rappresentano, insieme, più del 55 % dell’elettorato (60 % nella migliore delle ipotesi). Possono riuscire nel loro intento soltanto se non introducono "forzature" e propongono una soluzione razionale, che raccolga un ampio consenso. I due partiti maggiori hanno necessità di trovare alleati al momento di scrivere le "regole del gioco"; è l’unico modo per consolidare la loro naturale leadership, pure nel prossimo futuro.
Ci sono almeno altre cinque formazioni politiche che, secondo me, oggi hanno titolo e chances (in termini di capacità di raccogliere il consenso) per essere rappresentate in Parlamento. Le cito da Destra a Sinistra: 1) Alleanza Nazionale; 2) la Lega Nord; 3) un partito moderato, di ispirazione cattolica, ma non confessionale (l’attuale UDC, più molto altro); 4) un partito moderato, di ispirazione laica, ma non anticlericale, collegato in Europa all’ELDR, cioè ai liberali europei (si tratterebbe di ridare ruolo e dignità politica ad una miriade di frammenti: PLI, PRI, Repubblicani europei, parte di Italia dei Valori, parte dei Radicali, e molto altro che dovrrebbe venire dalla borghesia delle imprese e delle professioni); 5) la Sinistra unita, comprensiva dei post comunisti e degli ambientalisti, o Verdi che dir si voglia. Per quanto riguarda i Socialisti, se ci fosse un senso logico nella politica, la loro collocazione naturale dovrebbe essere nel Partito Democratico; questo dovrebbe valere pure per la parte prevalente dei Radicali. Per riassumere, il mio Parlamento "ideale" non è composto da due partiti, ma da sette partiti, ciascuno erede consapevole di una tradizione storica di riferimento e ciascuno collegato con le principali famiglie politiche europee. Delle cinque formazioni politiche che ho richiamato soltanto due hanno una collocazione rigida nello scenario politico: Alleanza Nazionale, che sta a Destra, e la Sinistra unita, che, per definizione, sta a Sinistra. Le altre tre formazioni, Lega, moderati di ispirazione cattolica, liberal-repubblicani, potrebbero stipulare alleanze ora con il Partito del Popolo delle Libertà, ora con il Partito Democratico, sulla base di valutazioni inerenti ai programmi ed alle circostanze storiche. Normalmente le alleanze si dichiarano prima delle elezioni e normalmente si rispettano per l’intera durata di una legislatura. I cittadini elettori, infatti, non gradiscono partiti troppo "ballerini" e li puniscono togliendo loro il consenso nelle successive elezioni. Così avviene un po’ ovunque nella civile Europa e non si vede perché l’Italia dovrebbe distinguersi. Non è impossibile concepire una buona legge elettorale che nella realtà politica italiana odierna abbia un impatto meno traumatico del recepimento puro e semplice del modello tedesco. Una legge elettorale sarà tanto migliore, quanto più consentirà flessibilità operativa. L’idea è quella di ripristinare i collegi uninominali, che sono il veicolo naturale delle alleanze politiche, ma stavolta prevedendo un turno di primarie obbligatorio, disciplinato dalla legge. Resterebbe, come è tipico dei sistemi misti, una ridotta quota di seggi da assegnare con metodo proporzionale, per consentire che abbiano comunque rappresentanza parlamentare i partiti con maggiore radicamento nella dimensione regionale.
Considerato che, secondo la Costituzione vigente, dodici deputati devono essere eletti nella Circoscrizione Estero, si propone che 432 deputati (cioè in numero corrispondente al 70 % di 618) siano eletti in altrettanti collegi uninominali. Tra questi, un collegio coincide con il territorio della Regione autonoma della Val d’Aosta. Di conseguenza, ciascuno degli altri 431 collegi corrisponderebbe, in media, ad una popolazione di 131.963 abitanti (popolazione legale determinata nel censimento del 2001). Il turno delle elezioni primarie di collegio dovrebbe tenersi la seconda domenica precedente quella fissata per le elezioni vere e proprie. I candidati nelle primarie avrebbero tre possibilità: a) presentarsi con il contrassegno di una alleanza politica; b) presentarsi col contrassegno di un singolo partito, quando questo preferisca non allearsi, oppure quando più partiti, i quali pure sono intenzionati ad allearsi, vogliano utilizzare il turno delle primarie per provare la capacità di propri candidati di raccogliere il consenso nel dato collegio; c) presentarsi senza contrassegno, opportunità che potrebbe essere colta anche da eventuali politici in dissenso rispetto ai partiti di precedente appartenenza. In questo ultimo caso nella scheda di votazione, al posto del simbolo, verrebbe riprodotto un cerchio bianco riportante al centro il cognome e nome del candidato e, in basso, la dicitura «indipendente». La possibilità di candidature indipendenti toglierebbe a tutti, anche alle grandi alleanze fra partiti, il potere esercitato dall’imperatore Caligola quando trasformò il proprio cavallo in un senatore. I candidati nelle primarie, sia quelli che si presentano in rappresentanza di alleanze politiche, o di singoli partiti, sia quelli che si presentano come indipendenti, dovrebbero pagare una cifra, su un conto intestato al Ministero dell’Interno, come contributo per le spese di organizzazione delle elezioni primarie. Stando al valore attuale dell’euro, questo contributo non dovrebbe essere inferiore a cinquemila euro. Sarebbe a fondo perduto, in nessun caso rimborsabile. Così le primarie non consterebbero alcunchè alla collettività. Ogni singola candidatura dovrebbe essere sottoscritta da non meno di 250 e da non più di 500 elettori residenti nel collegio, con le firme debitamente autenticate. Il Ministero dell’Interno avrebbe il compito di verificare, con l’utilizzo di sistemi informatici, che uno stesso elettore non sottoscriva la candidatura di più di un candidato.
Verrebbero ammessi al turno elettorale vero e proprio tutti i candidati che conseguano una cifra elettorale non inferiore al 12 % del totale dei voti validi espressi nel collegio. In nessun caso, potrebbe essere candidato nel collegio chi non è prima passato attraverso la procedura di selezione delle primarie. In questo modo si otterrebbero due vantaggi: 1) verrebbe restituito potere agli elettori, consentendo loro di selezionare i candidati nel collegio uninominale nelle elezioni primarie; 2) si eviterebbe che i partiti minori possano esercitare un potere di condizionamento o di ricatto per ottenere candidature nei collegi uninominali. Dopo l’effettuazione delle votazioni, il seggio del collegio sarebbe attribuito al candidato che abbia ottenuto il maggior numero di voti validi espressi. Si propone che i restanti 186 deputati (cioè in numero corrispondente al 30 % di 618) siano eletti in proporzione ai voti ottenuti da liste di partito fra loro concorrenti. Sarebbero escluse dalla rappresentanza le liste che non superano la percentuale del 5 % dei voti validi espressi. Tuttavia — e in ciò consiste la novità della proposta rispetto a quanto previsto dalla legge elettorale tedesca — questo 5 % non verrebbe considerato su base nazionale, ma in ambito circoscrizionale. A questo scopo, il territorio del Paese sarebbe ripartito in tredici grandi circoscrizioni, corrispondenti ad aree territoriali omogenee. In questo modo sarebbero salvaguardati i partiti effettivamenti radicati in certe zone geografiche e si renderebbero inutili alleanze innaturali, tipo quella fra la Lega Nord ed il siciliano Movimento per l’Autonomia.
Ipotizziamo le seguenti tredici circoscrizioni: 1) Nord-Ovest = Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria; popolazione legale: 5.906.008; seggi spettanti: 19;
2) Lombardia = popolazione legale: 9.032.554; seggi spettanti: 29;
3) Nord-Est = Trentino - Alto Adige, Veneto, Friuli - Venezia Giulia; popolazione legale: 6.651.474; seggi spettanti: 22;
4) Emilia - Romagna = popolazione legale: 3.983.346; seggi spettanti: 13;
5) Toscana = popolazione legale: 3.497.806; seggi spettanti: 11;
6) Marche e Umbria = popolazione legale: 2.296.407; seggi spettanti: 8;
7) Sardegna = popolazione legale: 1.631.880; seggi spettanti: 5;
8) Lazio = popolazione legale: 5.112.413; seggi spettanti: 17;
9) Abruzzo e Molise = popolazione legale: 1.582.993; seggi spettanti: 5;
10) Campania = popolazione legale: 5.701.931; seggi spettanti: 19;
11) Puglia = popolazione legale: 4.020.707; seggi spettanti: 13;
12) Basilicata e Calabria = popolazione legale: 2.609.234; seggi spettanti: 9;
13) Sicilia = popolazione legale: 4.968.991; seggi spettanti: 16;
Totale Italia = popolazione legale: 56.995.744; seggi spettanti: 186.
Ogni elettore disporrebbe di due schede, una per la scelta di un candidato nel collegio uninominale, l’altra per il voto ad una lista fra quelle presentate nella circoscrizione. E’ importante evidenziare che il sistema elettorale proposto non prevede alcun collegamento fra il voto espresso per i candidati nei collegi uninominali ed il voto espresso per le liste circoscrizionali: nel senso che l’esito del primo sarebbe indifferente per il secondo. Non ci sarebbe alcun meccanismo di "scorporo". Anche questa è una soluzione tendente a contenere la frammentazione della rappresentanza: in ogni circoscrizione verrebbe "fotografata" la realtà dei rapporti di forza fra i partiti, e le liste più votate otterrebbero più seggi. Pure i partiti fra loro alleati nei collegi uninominali potrebbero contare il proprio rispettivo consenso in sede circoscrizionale. Ovviamente, chi è candidato in un collegio uninominale non potrebbe essere candidato in altri collegi, né in liste circoscrizionali, pena la nullità dell’elezione.
Ciascuna lista ammessa all’attribuzione dei seggi avrebbe diritto a tanti eletti quante volte il quoziente elettorale circoscrizionale è compreso nella propria cifra elettorale. I seggi che non possono essere attribuiti per insufficienza di quoziente sarebbero assegnati alle liste con i maggiori resti, nell’ambito della circoscrizione medesima. Nel limite di seggi spettanti a ciascuna lista, i candidati sarebbero proclamati eletti secondo l’ordine di presentazione nella lista. Ciò consentirebbe pure l’applicazione di meccanismi volti a promuovere il riequilibrio della rappresentanza fra i sessi. In circoscrizioni così dimensionate le liste dei partiti di medie dimensioni avrebbero concrete chances di ottenere rappresentanza.
Si obietterà che il sistema elettorale ipotizzato non garantisce una maggioranza numerica in Parlamento. Invero, né la legge elettorale inglese, né quella tedesca, prevedono alcuna maggioranza numerica garantita. Non bisogna stancarsi di ricordare che la legge elettorale Acerbo (quella applicata nelle elezioni del 1924), per fortuna, non è l’unico modello di sistema elettorale cui ispirarsi. Le stesse disposizioni, con pochi adattamenti, potrebbero valere per l’elezione del Senato. I collegi uninominali per l’elezione del Senato potrebbero essere quantificati in 216 (cioè in numero corrispondente al 70 % di 309). I senatori da eleggere in proporzione ai voti ottenuti da liste presentate nelle Regioni potrebbero essere quantificati in 93 (cioè in numero corrispondente al 30 % di 309). Ovviamente, per rispettare la disposizione dell’articolo 57 della Costituzione, le circoscrizioni per l’elezione del Senato dovrebbero coincidere col territorio delle Regioni.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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