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Riforme istituzionali

La parola al popolo

Da noi i referendum costituzionali si fanno dopo le riforme e servono a impedirle. I risultati di quelli abrogativi invece vengono violati. Giriamo la frittata.

di Davide Giacalone - 07 giugno 2013

La sgradevole impressione è che ci si sia imbarcati nell’ennesimo dibattito costituzionale senza costrutto, destinato a finire nel nulla. S’abbozzerà una diversa legge elettorale, che non è materia costituzionale. Per evitare tale esito infausto, capace solo di togliere solennità alla Costituzione e giustificarne le continue violazioni, un sistema c’è: dare la parola al popolo.

La Costituzione vigente è in coma artificiale, protetta dagli stessi che ne hanno lungamente sviato l’attuazione. La Costituzione futura è un gioco di società, con cui ci si trastulla fin dai tempi della commissione Bozzi (1983). Diciamo che c’è un accordo generale sulla necessità di riformare la Carta, salvo poi non farlo e procedere a spizzichi e bocconi, ammaccandola e scassandola, senza alcun disegno coerente. Nel frattempo non si contano i deragliamenti, compreso il fatto che dal Colle si tampina il governo perché avvii riforme costituzionali che, s’insegnava un tempo, sono materia parlamentare. Abbiamo anche un ministro per le riforme costituzionali, come se fosse questione da amministrare. E’ stata nominata l’ennesima commissione d’esperti (35 professori, recanti 70 idee diverse, con apposita cerimonia quirinalizia e annesso pungolo presidenziale), come se studiare non fosse attività preliminare al parlare, ma collaterale al prender tempo. Conosciamo la commedia a memoria: gli astanti s’atteggiano a pensosi costituenti, fin quando qualcuno non suona l’allarme sull’imminente fine della libertà, e quando la scena restituisce un caotico accapigliamento si alza uno a dire: altre sono le priorità, come il lavoro, i giovani e l’economia. Già il fatto che sfugga il nesso fra solidità istituzionale ed efficacia del governo, ivi comprese le materie economiche, la dice lunga sulla natura letteraria, direi romanzesca, di certi dibattiti.

A Bologna si son riuniti quelli di Libertà e Giustizia, che son conservatori certi d’esser progressisti. Giù le mani dalla Costituzione più bella del mondo, che non è definizione che si debba alla nobile anima di un costituente, ma a quella di un comico. Transeat. Ma la cosa curiosa è che considerano nefando qualsiasi passo verso il presidenzialismo, laddove i costituenti del Partito d’Azione (Piero Calamandrei e Leo Valiani), alle cui simbologie si richiamano, erano, appunto, presidenzialisti. Ma che bestemmia sto dicendo? Sto forse affermando che il nobile Pd’A sosteneva quel che oggi sostiene il crapulone priapesco? La bestemmia, in vero, consiste proprio nella loro posizione, così supinamente schiava del berlusconismo.

Il semipresidenzialismo alla francese (che affascinò un eroe della Resistenza e della guerra di Spagna, quel Randolfo Pacciardi che fu prontamente tacciato di fascismo da una sinistra comunista colma di supponenti ignorantoni) s’accende a intermittenza sul capino ora di certa destra, ora di certa sinistra. Mai contemporaneamente, altrimenti va a finire che si quaglia qualche cosa. Orbene, ma lo sanno, i nostri costituzionalisti per caso, come fece Charles De Gaulle a far passare l’elezione diretta del presidente della Repubblica? Con un referendum, nel 1962. La sinistra francese gridò alla dittatura e il presidente del Senato fece ricorso al Conseil Costitutionnel (la nostra Corte Costituzionale), che lo mandò a spigolare, sostenendo: quando parla il popolo la Corte tace. Saggio. Quel genere di referendum non c’era, nella Costituzione della quarta Repubblica francese, fu una forzatura. Mentre le riforme costituzionali potevano farsi seguendo i dettami dell’articolo 89 (che era un po’ come il nostro 138). Infatti non si facevano. Il vero colpo di De Gaulle fu il referendum, non il presidenzialismo. Nel senso che trovò nella consultazione lo strumento per riformare. Istruttivo.

Nel nostro sistema i referendum costituzionali si fanno dopo le riforme e servono a impedirle. Quelli abrogativi si fanno a piacimento, tanto poi se ne viola il risultato (ottimi i cinque radicali sulla giustizia, ma, appunto, taluno l’avevamo già fatto). Giriamo la frittata: non è vietato convocare referendum d’indirizzo. Facciamolo. Voglio vedere come potrebbe una classe politica tremula e sfiancata, priva di coraggio e idee, ignorarne il risultato. Certo, la riforma non può essere una sola, occorre riscrivere l’intero equilibrio fra i poteri. Ma almeno si partirebbe da punti sicuri. E’ più importante l’economia? Lo è, come no. Ma ripetetemelo dopo avere assistito allo snocciolamento di rinvii delle proroghe e proroghe dei rinvii, con gran rissa su tassucce marginali nel mentre il torchio fiscale strizza a dovere la sudditanza, dopo avere riascoltato per la centesima volta moniti altolocati e guaiti dissociati indicanti quel che si dovrebbe fare e non si fa.

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