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Banche: un ritorno al merito di credito è sacrosanto

"La paga dei padroni "

E' bene evitare qualsiasi forma di autolesionismo improvvido

di Enrico Cisnetto - 04 settembre 2009

Non ho mai apprezzato, e l’ho scritto, la violenta campagna contro le banche che si è scatenata con l’esplodere della crisi finanziaria. Mentre altrove si spendeva un’enorme quantità di denaro pubblico per salvare gli istituti di credito, da noi si è accompagnata la creazione dei cosiddetti Tremonti bond con un lancio di pietre contro banche e banchieri cui quasi nessuno, dalla politica ai media, si è sottratto.

Un vero e proprio sport nazionale: affamatori del popolo, strozzini, ladri, furbi e furbetti. Senza capire che le banche sono imprese come le altre, che se c’è una colpa di cui si sono macchiate nel passato è di aver dato troppi soldi a troppi e che dunque oggi un ritorno al merito di credito è sacrosanto.

Detto questo, però, c’è da dire che anche nelle banche più d’uno non ha capito la lezione. Mi riferisco ai ricchi bonus che i manager del settore sono tornati ad attribuirsi, talvolta anche in modo sfacciato.

Lo so che finora è successo negli Stati Uniti, ma non vorrei che anche in Europa e in Italia – dove pure non sono mai stati toccati certi livelli, neanche nel momento delle vacche più grasse – venisse la voglia di imitare i banchieri americani.

Non è un caso che ieri, dopo l’intesa di massima ma non specifica raggiunta in sede Ecofin, Nicolas Sarkozy, Angela Merkel e Gordon Brown abbiano messo le mani avanti, chiedendo che il G20 di Pittsburgh imponga “regole obbligatorie” sulle remunerazioni nel settore finanziario – e relative sanzioni per chi non le rispetta – almeno per gli istituti di dimensioni importanti.

Tra queste regole, viene specificatamente citata quella tesa a “limitare l’ammontare delle remunerazioni variabili (bonus) nelle banche, sia in proporzione alle remunerazioni totali, sia in funzione dei redditi e/o dei profitti della banca”.

Peccato che non ci sia la firma di Silvio Berlusconi in calce alla lettera che hanno mandato al primo ministro svedese Fredrik Reinfeldt, presidente in carica dell’Ue – a proposito: manca per nostra o per loro scelta? – perché rappresenta la giusta iniziativa da prendere se si vuole che il fiume di parole spese in buoni propositi nel bel mezzo della crisi non vada disperso con i bilanci trimestrali tornati ricchi di utili di molte grandi banche.

Negli Usa, infatti, l’Institute for policy studies ha fornito una tabella raccapricciante sui compensi 2008 degli amministratori delegati degli istituti di maggiori dimensione, messi a confronto con il numero dei posti di lavori tagliati in quelle stesse banche: i numeri uno di Goldman Sachs e American Express sono in testa alla classifica con quasi 43 milioni di dollari ciascuno, a fronte di 4.760 e 11 mila lavoratori lasciati a casa, ma al terzo posto spicca Citigroup che mentre faceva fuori 75 mila dipendenti dava oltre 38 milioni di dollari di compenso al suo amministratore delegato.

In totale, i capi di 20 istituti bancari e finanziari hanno tagliato 160 mila posti e nello stesso tempo si sono dati 275, 6 milioni di dollari, cioè in media 13,78 milioni ciascuno. Anche se in realtà bisognerebbe escludere dal calcolo Capital One Financial, l’unica a non dare compensi milionari (solo 68.344 dollari), per cui diviso 19 la cifra pro-capite diventa 14 milioni e mezzo.

D’accordo che il dollaro è svalutato e se si facesse il calcolo in euro dovremmo togliere un 30%, ma pur sempre si tratta di cifre scandalose in sé e tanto più inaccettabili se si considera il momento storico che viviamo.

Non si tratta di fare del moralismo – e la premessa circa la mia totale estraneità alla campagna di attacco alle banche e derisione dei banchieri, attesta che non ci possono essere equivoci – ma di prendere atto che tra gli elementi discorsivi del buon funzionamento del mercato e del capitalismo ci sono state i livelli altissimi delle remunerazioni, dei bonus, delle stock options e delle liquidazioni dei manager, e in particolare di quelli del settore finanziario, creditizio e assicurativo.

E che reiterare quell’errore è sbagliato sia sotto il profilo economico che quello morale. Ora, in Italia non si sono certo raggiunte le punte americane (e inglesi), ma un buon libro come quello di Giorgio Meletti e Gianni Dragoni (“La paga dei padroni”, edito da Chiarelettere) ha dimostrato che sono stati molti i casi in cui si è ecceduto.

Anzi, Profumo ha voluto ricordare ieri come Unicredit agisca già nella logica Ecofin, e Ponzellini ha lanciato a nome di Bpm la proposta di un “fondo premi” di lungo termine alternativo ai bonus annuali. Ma è bene che nessuno sgarri, perché la reputazione (da ricostruire) delle banche è cosa troppo importante perché qualcuno la metta a repentaglio con qualche autolesionismo improvvido.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.