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Urge una scossa al ceto produttivo italiano

La nuova marcia dei quarantamila

Nessuna delega, la borghesia è chiamata a un impegno diretto. E politico

di Enrico Cisnetto - 17 novembre 2006

Ricordate la marcia dei 40 mila dirigenti e quadri, della Fiat ma non solo, che nel 1980 a Torino cambiarono il corso della vita economica, sociale e politica di allora? Sono passati 26 anni, e ho la sensazione che la storia possa in qualche modo ripetersi. Ho partecipato il 6 novembre a Milano ad un’imponente manifestazione (2800 persone) della Federmanager, e lo scorso martedì a Roma ero presente al Teatro Valle ad un incontro organizzato da Cida, Confedir, Cosmed e Cuq, sigle che rappresentano l’intero sistema managerial-professionale italiano. In entrambi i casi si trattava di (sacrosante) iniziative di protesta e di proposta sulla Finanziaria – che peraltro hanno visto la totale assenza del Governo e la tendenza degli esponenti dell’opposizione (con l’eccezione di Tabacci) a dimenticarsi gli errori e le omissioni della scorsa legislatura – ma che segnalavano un disagio ben più vasto di quello generato dalle misure “punitive” contenute nella Visco-Padoa Schioppa-Prodi, che finiscono per essere il detonatore di una bomba sociale e politica non meno potente di quella che esplose il 14 ottobre del 1980. Allora scattò la rivolta contro un egualitarismo imperante, di matrice sindacale, che aveva messo in ginocchio la Fiat così come gran parte delle imprese italiane e aveva fatto da brodo di coltura del terrorismo brigatista. Ne seguì non soltanto una sconfitta storica del massimalismo, una svolta importante nella storia del sindacato italiano ed equilibri politici diversi da quelli affermatisi negli anni Settanta “di piombo”, ma anche un cambiamento della cultura profonda del Paese, con la legittimazione del profitto e la rivalutazione (quando non ostentazione) della ricchezza dopo un decennio di pauperismo mortificante. Ma tanto tra le forze politiche moderate e riformiste che a quel momento di rottura avevano plaudito, quanto nello stesso mondo delle diverse responsabilità professionali e più in generale della borghesia, nessuno è stato capace – forse con la sola eccezione, ma tra molte contraddizioni, del craxismo – di dare continuità e sostanza ad un fenomeno così ricco di potenzialità. Con il risultato che il Paese ha scambiato una ubriacatura di antipolitica (Tangentopoli e dintorni) per grande palingenesi e si è infilato senza neppure accorgersene nel tunnel buio di un declino da cui è lungi dall’essere uscito. Basterebbe ripercorrere la storia delle molte sigle sindacali e professionali che in questo quarto di secolo hanno rappresentato quadri e dirigenti – troppo spesso protagoniste di frazionismi e individualismi miopi – per capire come sia stata gettata al vento un’occasione per dare al ceto produttivo una forza politica e una capacità di leadership almeno paragonabile al suo peso in termini di produzione di pil.
Oggi, pur in uno scenario mutato, le cose non stanno molto diversamente. La crisi strutturale del Paese, cui si somma un’inaccettabile rigurgito massimalista in politica, ha fatto da detonatore al malcontento di oltre un milione mezzo di cittadini che rappresentano il cuore pulsante del sistema economico e amministrativo. E ha spinto le loro organizzazioni a scegliere – o se si vuole, a tornare a scegliere – strumenti di pressione e comunicazione forti, fino al preannuncio di un possibile, inedito sciopero. Come allora, è bene che tutto ciò accada. E’ bene che persone, categorie e ceti fin qui troppo acquiescenti sentano il bisogno di dire la loro, di organizzare la protesta e – soprattutto – elaborare le proposte.
Ma, mi permetto di suggerire loro, è indispensabile che non si commettano gli errori del passato. Le rivendicazioni specifiche, per quanto giuste e comprensibili, non possono essere la cifra dei loro comportamenti. Occorre che quadri e dirigenti facciano un passo avanti: che sappiano inquadrare i loro problemi dentro un contesto più vasto; che capiscano che il loro declino è parte del più generale declino dell’economia italiana (e persino europea); che a monte c’è il fallimento del nostro sistema politico bipolare, e che senza un suo radicale cambiamento qualunque rivendicazione risulterà vana e frustrante l’attesa di un suo soddisfacimento (come in occasione di tutte le Finanziarie degli ultimi dodici anni). Il ceto produttivo, la buona burocrazia amministrativa, la borghesia tutta è chiamata ad un impegno diretto. Non è più tempo di deleghe, tanto meno in bianco. Ma per non fare la fine del mitico Luigi Arisio – modernariato da soffitta – occorre avere coscienza e disegno politico.

Pubblicato sul Foglio del 17 novembre 2006

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.