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Il fallimento della Lega

La metastasi bossiana

I riti e le rivendicazioni leghiste ono solo semplicistiche e confusionarie illusioni. L'obiettivo dovrebbe essere quello di fare di ogni uomo “un patriota del mondo intero”, per un vero federalismo, quello che unisce ciò che è diviso, e non quello che divide e complica ciò che è unito

di Massimo Pittarello - 23 giugno 2012

Et pluribus unum. O viceversa. Sono due i modelli di formazione degli Stati moderni. Dalla periferia al centro, come è per le federazioni e le confederazioni. Dal centro alla periferia, come è per gli stati regionali e decentrati. E per quanto la Lega – oggi sugli scudi – inveisca e strombazzi, in questa seconda opzione rientra anche l’Italia, che ha nel centro l’origine ultima della propria legittimità. Voler invertire questa tendenza è un paradosso storico, una forzatura ideologica. Se poi ciò viene rivendicato al grido di “secessione”, come la Lega ha fatto seguendo i suoi più populistici istinti con uno slogan privo di senso e di attinenza alla realtà, tale follia diventa anche controproducente. Per tutti, non solo per la Lega. Qualcuno si stupisce dell’ideale infranto, del “cerchio magico” che si spezza, del mito del leader che si offusca, dei “barbari sognanti” che fanno affari in Tanzania, dei diamanti e dei lingotti d’oro. Ma non deve esserci stupore nella fine di un’illusione, di un equivoco, di un triste scherzo della storia repubblicana. Della Lega Nord era e rimane sbagliato il presupposto. A contare gli illeciti e i reati ci penserà la magistratura. Purtroppo noi dobbiamo registrare i danni che Bossi e la Lega hanno fatto dal punto di vista economico e politico. Almeno per questo non dobbiamo aspettare i giudici. La Seconda Repubblica ha convissuto con la metastasi leghista, che voleva cambiare tutto – giustizia, sicurezza, fisco, architettura istituzionale – e alla fine non ha cambiato nulla. La Lega ha intercettato e cavalcato alcune istanze reali, ma gli ha dato risposte totalmente sbagliate. La “questione settentrionale” in Italia c’è, al pari di quella “meridionale” che varie volte è stata affrontata, anche se mai risolta del tutto. In entrambi i casi però le risposte, tanto quella federalista quanto, ancor peggio, quella secessionista, si sono rivelate delle pure idiozie demagogiche. Nell’epoca della globalizzazione, delle decisioni globali, delle distanze fisiche ridotte e di quelle dell’informazione annullate, come si può pensare che delimitare i territori sia una soluzione? Esistono dilemmi reali nel settentrione italiano: il problema del “popolo delle partite Iva”, del tessuto delle piccole e medie imprese, degli strozzati dalla pressione fiscale. Ma creare un piccolo staterello fra il Po e le Alpi sarebbe davvero una soluzione? Ma anche l’idea di voler creare una “federazione” nel vero senso del termine, laddove non ci sono i presupposti, è un grossolano errore. Quando il potere dei vari centri decisionali territoriali viene frazionato i risultati sono evidenti: crescono i contenziosi tra centro e periferia, aumentano i diritti di veto in grado di bloccare piccole e grandi opere, cresce la spesa pubblica e ci si ritrova con un aeroporto e una università ogni cinquanta chilometri. Così le tasse aumentano e l’economia stagna. Come ha dimostrato la riforma del Titolo V della Costituzione. La Lega giustizialista, che sventolava cappi in Parlamento, è diventata poi la Lega garantista dei complotti dei magistrati, rossi e comunisti quando accusavano Berlusconi, poi terroni e conservatori quando scoprivano irregolarità nei bilanci del partito. Anche sul terreno della sicurezza dei cittadini, altro cavallo di battaglia del Carroccio, si può misurare il fallimento: dalle salvifiche ronde alle pulizie etniche anti-rom, nulla è servito a migliorare la qualità della vita degli italiani, ma molto è servito ad alimentare un clima di tensione fine a se stessa. E in economia? La linea della Lega di Bossi è stata una contraddizione totale: gli stessi che facevano i liberisti con le tasse, fino a evocare gli scioperi fiscali, praticavano la difesa della peggior spesa pubblica corrente, impedendo la cancellazione delle province e la privatizzazione delle municipalizzate. Se poi si aggiunge quanto il disprezzo esibito per l’unità nazionale e le sue istituzioni ha alimentato il qualunquismo dell’anti-politica, si può meglio calcolare il danno provocato quel signore in canottiera che dice parolacce, mostra il dito medio e chiama i suoi all’uso dei fucili. Dopo lo scandalo si è detto: “è malato, gliene facevano di cotte e di crude alle sue spalle”. Una simpatia verso quel suo essere così “popolare” che fa a pugni con la realtà di un “partito-califfato” di cui Bossi, prima e dopo la malattia, era pienamente padrone. Il fatto è che c’è uno zoccolo duro di elettori che non abbandonerà mai il Senatùr che, malato o non malato, si porta dietro sempre il 4% dei voti. Ed è per questo che Maroni sta tentando di abbattere i bossiani senza toccare Bossi stesso. Operazione difficile. Già si parla di due Leghe. Le Camicie verdi, il parlamento padano e la restaurazione della Serenissima, l’ampolla con l’acqua del Po, i ministeri a Monza, rappresentano atteggiamenti iconoclasti della voglia di cambiamento. Ma sono solo semplicistiche e confusionarie illusioni. Speriamo almeno questo sia chiaro. Il movimento di popolo auspicabile è invece quello per sollecitare fare di ogni uomo, “un patriota del mondo intero”, realizzando così il vero federalismo, quello verso l’alto che unisce ciò che è diviso, e non quello che divide e complica ciò che è unito.

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