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Crisi. Le ragioni di Confindustria

La lezione di Squinzi: fatti non parole

Rimandare ancora gli interventi necessari significa far marcire i problemi.

di Enrico Cisnetto - 28 gennaio 2013

Bravo, Squinzi. Il grido d’allarme – “siamo in emergenza, serve una svolta subito” – lanciato dal presidente della Confindustria, oltre ad essere l’unica cosa seria che in questi giorni di campagna elettorale mi sia stato dato di ascoltare, ha una triplice valenza positiva. La prima è quella di riaccendere riflettori sulla reale condizione, tutt’altro che buona, della nostra economia, di cui dopo la discesa degli spread – dovuta alla Bce e al chetarsi della crisi europea – si era persa l’effettiva percezione. La seconda è quella di offrire agli italiani alle prese con il rebus del voto, il punto di vista di chi, conoscendo lo stato di salute dell’apparato produttivo, segnala il pericolo di una politica che, per ignavia o ignoranza, parla d’altro. La terza valenza, infine, è quella di aver rilanciato l’immagine della Confindustria, che in effetti era assai bisognosa di riconquistare l’autorevolezza e la centralità da tempo perduta.

In effetti, se ci pensate, è paradossale come tutti i protagonisti delle elezioni, nessuno escluso, stiano usando lo stesso metro comunicativo nei confronti degli elettori: aggiustare i danni sociali arrecati dalla crisi, fino a ridare indietro ciò che si è tolto, usando un’equità fin qui non praticata. Ora, è ben vero che un aspetto di quell’emergenza di cui ha parlato il numero uno della Confindustria riguarda l’impoverimento, relativo e assoluto, che ha generato la perdita di 7 punti e mezzo di pil (cui si aggiungerà la recessione 2013) e quella, conseguente, di quasi 600 mila posti di lavoro (cui andrebbero aggiunti i cassintegrati senza reale prospettiva). Effetti che peraltro non toccano solo i ceti più in basso nella gerarchia sociale. Ma questa avrebbe senso essere l’unica preoccupazione e dunque il solo punto di vista da cui partire, se la crisi fosse finita. Invece non è così. Bankitalia prevede che la recessione ci porti via ancora almeno un punto di ricchezza nazionale, le stime su livelli produttivi e occupazione sono pessime. Dunque, sta proprio in questo il valore delle parole di Squinzi – indicare al Paese che l’incendio non è affatto domato – prima ancora di quella che ha chiamato “terapia d’urto”, imperniata su tre mosse (pagamento immediato di 48 miliardi di debiti commerciali accumulati da Stato ed enti locali; cancellare l’Irap; tagliare dell’8% il costo del lavoro nel manifatturiero) che pure sono condivisibili.

Questo significa che ci aspettano altri sacrifici? È probabile. Capisco che non sia argomento da campagna elettorale – per come la concepiamo noi – ma è così. E non dirlo agli italiani, o peggio dir loro il contrario, non è cosa neutra. Perché rimandare vuol dire far marcire i problemi e quindi peggiorare le cose, e quando arriverà (perché arriverà) il momento di guardare in faccia la realtà, risulterà mille volte più difficile prendere provvedimenti e sarà impossibile creare il giusto clima di reazione nel Paese. Ma Confindustria sostiene, a ragione, che mobilitando 316 miliardi di euro in cinque anni, cosa possibilissima se si fanno le riforme e si mette mano al patrimonio pubblico, il pil aumenterà di 156 miliardi di euro (al netto dell’inflazione) e l’occupazione crescerà di 1,8 milioni di unità, facendo scendere il tasso di disoccupazione all’8,4% (dal 12,3% atteso per il 2014). Non è forse una bella prospettiva da raccontare agli elettori?

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.