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Da qua se ne vanno tutti

La fuga dei giganti

Le grandi multinazionali stanno una ad una lasciando l’Europa. E non torneranno

di Massimo Pittarello - 07 gennaio 2013

Peter Hulsmans ha lavorato per 26 anni nello stabilimento della Ford di Genk, in Belgio. Quando i vertici dell’azienda hanno chiamato lui e i suoi 4300 colleghi per un incontro in una rara giornata dal cielo blu limpido, lo scorso ottobre, sapeva non sarebbero arrivate buone notizie. Era prevedibile una scossa, magari con qualche licenziamento. E invece si è trovato di fronte a un terremoto: il produttore statunitense di automobili, che pose il primo mattone della fabbrica nel 1962, annunciava che lo stabilimento era in procinto di chiudere.

“Abbiamo sempre pensato che c’erano più garanzie per i lavoratori delle grandi aziende multinazionali rispetto a quelli delle piccole e medie imprese” è il commento dell’ormai ex dipendente Hulsmans, mentre si trova a fianco di una vecchia carcassa di una Ford Mondeo data alle fiamme durante la protesta dei lavoratori fuori dai cancelli dello stabilimento. “La Ford se ne sta andando e nessuno la sostituirà... Nessuno vuole più investire qui”.

In tre anni, e cioè dall’inizio della crisi nella zona Euro, storie come quella del signor Hulsmans sono diventate incredibilmente comuni. Molte multinazionali che per lungo tempo hanno considerato l’Europa un paradiso per una crescita lenta ma sicura, stanno ora rapidamente invertendo la rotta, tagliando gli investimenti e chiudendo gli stabilimenti.

Dal 2007 al 2011, gli investimenti annuali nei 27 Paesi dell’Unione sono scesi di una cifra superiore ai 350 miliardi di euro, e cioè in misura assai maggiore di altri indicatori economici, secondo quanto riportato da uno studio McKinsey. Un declino, ad esempio, 20 volte superiore a quello del consumo privato e quattro volte quello dell’economia globalmente considerata. Questi investimenti che non ci sono più si traducono in una perdita di ricavi all’interno dell’Unione europea stimata in 543 miliardi fra il 2009 e il 2020.

Le imprese stanno tagliando i costi, spostando le operazioni verso i mercati emergenti per avvalersi di produzioni a costi maggiormente convenienti, causando la perdita di migliaia di posti di lavoro e contribuendo a livelli di disoccupazione a livelli record all’interno dell’area Euro.

Dopo l’istituzione di un “fondo salva-stati” annunciata da Mario Draghi nell’agosto scorso, i manager delle grandi aziende che operano in Europa hanno più volte affermato di aver ormai accantonato i piani di contingentamento per un’eventuale fine dell’Euro. Ma nonostante questo hanno continuato a spostarsi verso il dollaro, lo yen e lo yuan. La paura più grande è quella che il Vecchio continente possa trasformarsi in un nuovo Giappone.

“L’Europa si avvia verso un lungo e duraturo periodo di scarsa crescita” è il commento del direttore generale della General Electric, Jeff Immelt, pronunciato durante una conferenza a New York lo scorso anno. Ma le grandi imprese sono anche convinte che l’ascesa di movimenti e partiti antiriformisti in Paesi dell’Eurozona come Italia, Francia e Grecia, sia un problema da non sottovalutare.

La lista delle grandi multinazionali che stanno chiudendo nel settore manifatturiero è impressionante e annovera esponenti di primissimo piano. Oltre alla Ford, che ha chiuso cinque mesi fa il suo stabilimento di Genk in Belgio, la General Motors ha dismesso la fabbrica della Opel a Bochum, nella zona mineraria della Rhur, lasciando senza lavoro oltre 3000 persone. L’americana General Electrics sta concentrando la quasi totalità dei due miliardi di dollari di tagli messi in programma nelle sue filiali europee. L’altra statunitense del settore chimico, la Dow Chemical, ha annunciato la chiusura delle operazioni in Belgio, Paesi Bassi, Spagna e Regno Unito.

La Hewlett-Packard ha letteralmente tagliato via in un sol colpo 8000 posti di lavoro in Europa, mentre la Kimberly-Clark, che produce i fazzoletti Kleenex, ha chiuso quasi tutte le sue sedi europee, spostandosi altrove nel tentativo (probabile) di aumentare i margini di profitto.

Secondo una sintetica sommatoria, il giro d’affari delle multinazionali che operano in Europa è diminuito di quasi 2000 miliardi di dollari dall’inizio della crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona. Ma non sono solo le industrie manifatturiere a spostarsi verso i paesi emergenti. L’esodo è cominciato anche nel settore dei servizi e, in particolare, dei servizi finanziari. La Nomura, banca di investimenti giapponese, dopo aver tagliato costi per 1 miliardo di euro, a settembre ha deciso di ridurre ulteriormente la sua presenza nel Vecchio continente, e di spostarsi verso i mercati asiatici. La statunitense Citigroup ha recentemente annunciato il taglio di 350 posizioni fra Spagna e Francia.

I dati dicono che solo il 3% dei manager delle aziende americane hanno aumentato gli investimenti nell’Eurozona dall’inizio della crisi, rispetto ad un più 25% nei mercati emergenti. Si palesa quindi un dubbio: se l’Europa, come sostengono alcuni importanti leader politici e di governo, sta finalmente uscendo dalla crisi finanziaria e dei debiti sovrani, è possibile però che stia entrando in una ben più complessa congiuntura economica. Se la crisi è stata fino ad ora più forte in alcuni Paesi periferici, quali ad esempio Grecia e Spagna, non è detto non si possa ora abbattere con forza anche su Paesi più “centrali” e più solidi, come sono quelli dell’Europa del Nord.

Secondo quanto riporta la Bce, gli investimenti diretti esteri sono calati in media del 10% all’anno. Le attività di fusione e di incorporazioni nel 2012 sono state più basse del 34% rispetto all’anno precedente, e minori del 70% rispetto al picco del 2007. Ma questo periodo di crisi ha ulteriormente rafforzato la convinzione che molti operatori economici internazionali avevano anche prima del 2008, e cioè che il mercato europeo sia eccessivamente regolamentato e ingessato, con un’economia incapace di ristrutturarsi.

Sergio Marchionne lo scorso marzo ha pubblicamente suggerito all’Europa di seguire quanto fatto da Barack Obama nel ristrutturare profondamente il settore dell’automobile negli Usa. “Ci sono necessità di riforme strutturali che sono adottabili solo ad un livello locale, e che possono e devono essere condotte esclusivamente dalla Ue”, ha spiegato l’amministratore delegato della Fiat, evidentemente con poco seguito alle sue parole.

In effetti, una delle critiche più ricorrenti, è quella per cui l’Unione europea ha operato in profondità nelle politiche di austerity, senza però attuare, se non marginalmente, politiche a favore della concorrenza, per l’apertura dei mercati, per gli investimenti e la crescita. Se la crisi ha conferito gli strumenti necessari per alcune indispensabili riforme, ora sembra tornato l’immobilismo, specie per quanto riguarda provvedimenti a favore della competitività, i soli in grado di rilanciare l’economia.

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