Lega all'opposizione
La fine è politica
L'arma giudiziaria è solo lo strumento che certifica la finedi Davide Giacalone - 07 aprile 2012
Il collasso della Lega è politico. L’arma giudiziaria è solo lo strumento che certifica la fine. Oggi la Lega si trova all’opposizione, non ha tutele istituzionali, non ha aderito alla chiamata quirinalizia per il sostegno al governo commissariale, il che la rende più vulnerabile (e più maramaldeschi i commenti). Ma i due grossi partiti, Pdl e Pd, che si sono uniti nell’appoggiare il governo Monti e nel condividere l’iniziativa politica assunta dal Colle, non credano d’essere per questo immuni. La storia segue un tracciato noto: prima la sconfitta politica, poi l’inutilità, quindi il fastidio arrecato ai nuovi equilibri, infine il colpo di grazia. Osservate quel che succede nel campo della legislazione del lavoro e dell’imposizione fiscale e considerate la distanza siderale rispetto ai programmi e alle parole di quei partiti, risulterà più facile capire, come qui ripetiamo da mesi, che sono dei morti che camminano.
La Lega ha perso la sua partita quando ha accettato di mettere il federalismo in secondo piano rispetto al galleggiamento. Al contrario della sinistra, che nel 2001 varò una pessima riforma costituzionale (loro, gli stessi che ripetono in continuazione che la Costituzione non si tocca), a me il federalismo istituzionale non è mai piaciuto. Ma il federalismo fiscale rispondeva ad una giusta esigenza: portare la riscossione fiscale nelle mani di chi avrebbe dovuto spendere i soldi. Anziché “federalismo” si sarebbe potuto chiamare in modo meno altisonante, ma il principio era giusto. Solo che lo si è fallito. Lì la Lega ha cominciato a morire, deludendo il proprio elettorato e assimilandosi al mondo contro cui aveva imprecato. Il resto è storia d’ordinaria dissoluzione e decadenza, nepotismo compreso. Consideriamo la sorte dei due grossi partiti, oramai piegati a politiche recessive e ad una ossessione fiscale che veste i panni del moralismo senza etica. Essi hanno convenuto sulla sottrazione di ricchezza e libertà ai cittadini, alle famiglie e alle imprese, per potere meglio cedere sovranità ad organismi europei privi di legittimità democratica. Così procedendo sono divenuti inutili, al punto da potere essere sostituiti, con il loro consenso, da un esecutivo che nessuno ha mai votato, ma che è stato prontamente osannato. Si trascineranno fin che lo appoggeranno, difatti non hanno il coraggio di sottrarsi a quell’obbligo, ben sapendo di non avere altro da dire ai cittadini e agli elettori. In questa condizione basta un’inchiesta, un’accusa, un attacco mosso dalle sedi istituzionali per perderli, dato che non dispongono più dell’unica forza che regge la democrazia: il consenso popolare.
Questo significa che i tecnici governeranno in eterno e il montismo (di cui il protagonista nega l’esistenza) sarà vincente? No, lo dimostra la partita del lavoro. Tutta giocata sul piano ideologico, tutta concepita nell’equilibrio fra sindacati che non rappresentano i lavoratori e partiti che non rappresentano gli elettori. La forza del governo nasce dall’inesistenza politica dei partiti che lo appoggiano e dalla regia sapiente di cui è capace Giorgio Napolitano. Ma quando si scodella la sbobba della riforma che dovrebbe cambiare il mondo del lavoro il trucco evapora, perché non c’è una sola persona che conosca le aziende, il mercato e i lavoratori disposta a credere che possa funzionare. Quella partita dimostra che la forza è apparente, vive sui giornali, si estrinseca nel vuoto politico, ma diviene debolezza quando si devono fare i conti con la realtà: il lavoro resta duale, i giovani restano fregati, i sindacati soddisfatti, il Quirinale garantito dalla rinuncia al decreto, mentre sull’Italia produttiva si scarica ulteriore pressione fiscale, che prima di condurre allo schianto innescherà la reazione. Emma Marcegaglia ha trovato tardi e male la voglia di dirlo, ma ha dovuto farlo. Chi le succederà è subito giunto in appoggio. La disoccupazione crescente e la sofferenza economica dei cittadini saranno più che sufficienti per dimostrare che quello sindacale è solo un apparato autoreferente. In queste condizioni neanche il Colle potrà salvare il governo, perché parla ad un mondo e di un mondo che non esiste. C’è una via d’uscita diversa, che passa dall’abbattimento del debito, dal taglio della spesa pubblica (si può, eccome!) e dalla diminuzione delle tasse. Una via opposta a quella scelta. Per imboccarla serve forza politica e consenso. Se nessuno dei partiti è in grado d’interpretarla non per questo sopravviveranno, perché faranno tutti la fine della Lega: sconfitti, delegittimati, infine spiedati. Il fatto che la giustizia resti una schifezza non funzionante sarà un dettaglio. E, del resto, è colpa loro.
La Lega ha perso la sua partita quando ha accettato di mettere il federalismo in secondo piano rispetto al galleggiamento. Al contrario della sinistra, che nel 2001 varò una pessima riforma costituzionale (loro, gli stessi che ripetono in continuazione che la Costituzione non si tocca), a me il federalismo istituzionale non è mai piaciuto. Ma il federalismo fiscale rispondeva ad una giusta esigenza: portare la riscossione fiscale nelle mani di chi avrebbe dovuto spendere i soldi. Anziché “federalismo” si sarebbe potuto chiamare in modo meno altisonante, ma il principio era giusto. Solo che lo si è fallito. Lì la Lega ha cominciato a morire, deludendo il proprio elettorato e assimilandosi al mondo contro cui aveva imprecato. Il resto è storia d’ordinaria dissoluzione e decadenza, nepotismo compreso. Consideriamo la sorte dei due grossi partiti, oramai piegati a politiche recessive e ad una ossessione fiscale che veste i panni del moralismo senza etica. Essi hanno convenuto sulla sottrazione di ricchezza e libertà ai cittadini, alle famiglie e alle imprese, per potere meglio cedere sovranità ad organismi europei privi di legittimità democratica. Così procedendo sono divenuti inutili, al punto da potere essere sostituiti, con il loro consenso, da un esecutivo che nessuno ha mai votato, ma che è stato prontamente osannato. Si trascineranno fin che lo appoggeranno, difatti non hanno il coraggio di sottrarsi a quell’obbligo, ben sapendo di non avere altro da dire ai cittadini e agli elettori. In questa condizione basta un’inchiesta, un’accusa, un attacco mosso dalle sedi istituzionali per perderli, dato che non dispongono più dell’unica forza che regge la democrazia: il consenso popolare.
Questo significa che i tecnici governeranno in eterno e il montismo (di cui il protagonista nega l’esistenza) sarà vincente? No, lo dimostra la partita del lavoro. Tutta giocata sul piano ideologico, tutta concepita nell’equilibrio fra sindacati che non rappresentano i lavoratori e partiti che non rappresentano gli elettori. La forza del governo nasce dall’inesistenza politica dei partiti che lo appoggiano e dalla regia sapiente di cui è capace Giorgio Napolitano. Ma quando si scodella la sbobba della riforma che dovrebbe cambiare il mondo del lavoro il trucco evapora, perché non c’è una sola persona che conosca le aziende, il mercato e i lavoratori disposta a credere che possa funzionare. Quella partita dimostra che la forza è apparente, vive sui giornali, si estrinseca nel vuoto politico, ma diviene debolezza quando si devono fare i conti con la realtà: il lavoro resta duale, i giovani restano fregati, i sindacati soddisfatti, il Quirinale garantito dalla rinuncia al decreto, mentre sull’Italia produttiva si scarica ulteriore pressione fiscale, che prima di condurre allo schianto innescherà la reazione. Emma Marcegaglia ha trovato tardi e male la voglia di dirlo, ma ha dovuto farlo. Chi le succederà è subito giunto in appoggio. La disoccupazione crescente e la sofferenza economica dei cittadini saranno più che sufficienti per dimostrare che quello sindacale è solo un apparato autoreferente. In queste condizioni neanche il Colle potrà salvare il governo, perché parla ad un mondo e di un mondo che non esiste. C’è una via d’uscita diversa, che passa dall’abbattimento del debito, dal taglio della spesa pubblica (si può, eccome!) e dalla diminuzione delle tasse. Una via opposta a quella scelta. Per imboccarla serve forza politica e consenso. Se nessuno dei partiti è in grado d’interpretarla non per questo sopravviveranno, perché faranno tutti la fine della Lega: sconfitti, delegittimati, infine spiedati. Il fatto che la giustizia resti una schifezza non funzionante sarà un dettaglio. E, del resto, è colpa loro.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.