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Riportare al centro la questione-crescita

La Finanziaria e i riformisti

Un tavolo che riscriva la legge di bilancio. Il problema non è l’equità, ma il declino

di Enrico Cisnetto - 06 ottobre 2006

Una regola saggia suggerisce, in politica come nella vita, di limitare i danni quando non si può vincere. Così, forse, bisognava che facesse Tommaso Padoa-Schioppa con la Finanziaria, quando gli è stato chiaro che Romano Prodi avrebbe del tutto sacrificato alle proprie esigenze di sopravvivenza l’inevitabile mediazione con la sinistra-sinistra della maggioranza. Io ho sempre approvato e sostenuto le “forzature” del ministro dell’Economia – confessate nei giorni scorsi a Le Monde – per creare le condizioni più favorevoli ad un compromesso al rialzo dentro il governo: l’allarme sulla finanza pubblica, l’evocazione del 1992, le conseguenze nefaste del mancato rispetto degli impegni europei, dovevano servire ad imporre una linea di rigore a chi, per insipienza o codardia, non voleva nemmeno sentir parlare di risanamento dei conti. La stessa portata della manovra doveva essere un’arma puntata contro i massimalisti. Invece, le cose sono andate diversamente, e il compromesso è stato al ribasso. La Finanziaria è una delusione. E non per i motivi che spingono taluni nel centro-destra a voler scendere in piazza: la prima Finanziaria della legislatura è molto deludente non perchè faccia versare “lacrime e sangue” ai ceti medi – cosa non vera – in nome di un’equità che peraltro non c’è, ma perchè non contiene nulla di veramente strategico e autenticamente riformista per far uscire il Paese dal declino.

Gli avversari “interni” di Padoa-Schioppa gli hanno lasciato scrivere il Dpef, poi hanno cominciato a stravolgere l’impostazione in esso contenuta. Anche questo era nel conto, ma aver accettato di varare un Dpef senza cifre, ma solo con indicazioni di principio, ha facilitato gli “smontatori”. A quel punto il ministro ha scelto la strada di difendere la cornice anzichè il quadro: ha insistito sui 30 miliardi, dopo aver accettato una riduzione di cinque, di fronte alle pressioni al ribasso o addirittura al dimezzamento. Anzi, nel finale ha portato la manovra a 33,4 ben sapendo che quel di più andava ad accontentare i ministri della spesa.

Certo, criticare è facile, e per un ministro senza partito – nemmeno quello del presidente del Consiglio, che peraltro è virtuale – vincere un braccio di ferro di questo genere sarebbe comunque arduo. Ma Padoa-Schioppa aveva comunque una via d’uscita – oltre a quella delle dimissioni, che ha fatto bene a non praticare – ed è quella contenuta in due numeri che lui conosce bene. Il primo riguarda le entrati fiscali, che nel primo semestre sono aumentate del 12,3% rispetto al 2005: 19.674 milioni in più, che portano a circa 180 miliardi il gettito complessivo. La seconda cifra attiene al fabbisogno del settore statale, che nei primi nove mesi è stato pari 44,4 miliardi, rispetto ai 69,008 dello stesso periodo dell’anno scorso (-25,6 miliardi). Dunque, al netto dei rimborsi Iva dovuti alla sentenza Ue sulle auto aziendali – che comunque anche la Finanziaria non ha conteggiato – c’erano le condizioni per considerare meno oneroso del previsto il rientro al di sotto del 3% del deficit-pil, tanto più che nella stessa Relazione previsionale s’indica per il 2006 non più il 4,1% scritto nel Dpef ma il 3,6%. Il che significa una manovra di rientro da 11-12 miliardi, non di più. Si potrà dire: e se quelle entrate non fossero strutturali, cosa succederebbe il prossimo anno? Vero, ma cosa c’è di strutturale nella manovra attuale? Lo sono gli 8 miliardi previsti dalla lotta all’evasione e all’elusione, cui non si arriverà neppure? Lo è il trasferimento del tfr all’Inps? Insomma, una volta accertato che la grande cornice della Finanziaria avrebbe moltiplicato gli errori – rovesciando il rapporto di 1/3 di aumenti di tasse e 2/3 di riduzioni di spese inizialmente previsto – forse era meglio scegliere la via minimalista, riducendone drasticamente il perimetro. D’altra parte, la confusione sugli obiettivi da perseguire – oltre al risanamento e allo sviluppo, si era evocata l’equità, come se questa potesse prescindere dalla ripresa economica, di cui può essere solo una conseguenza – avrebbe dovuto mettere sull’allerta.

Ora si deve rimediare. La possibilità c’è – proprio grazie ad un quadro reale dei conti meno pesante del previsto – se però i riformisti di entrambe le parti si decidono a mettere in un angolo tanto i massimalisti di sinistra quanto i populisti di destra. Ci vuole un “tavolo dei riformisti” che riscriva la Finanziaria su altre basi. Il “tavolo dei volonterosi” ne è un buon inizio, ma per riuscire occorre che Rutelli e Casini si spendano personalmente e con convinzione. Non si tratta di inciuciare, ma di tentare di ridare una speranza al Paese dopo un quindicennio disastroso. Certo, è difficile cambiare di segno ad una Finanziaria che doveva essere di risanamento e sviluppo con qualche concessione all’equità, e che invece è diventata di presunta equità, di risanamento non strutturale e di sviluppo residuale. Tuttavia, proprio perchè il perimetro della Finanziaria è largo, tanto vale provare a ridare centralità alla questione della crescita, collegandola al ddl Bersani cosiddetto “industria 2015”. L’obiettivo prioritario deve essere quello di un “patto per lo sviluppo”, che consenta di scrivere in modo condiviso un piano per la riconversione produttiva del nostro sempre più marginale capitalismo. I riformisti sanno che il problema dell’Italia non sono le iniquità, ma il declino. E che con questa Finanziaria e con l’opposizione in piazza ci sono buone probabilità che lo si aggravi. E’ sufficiente per reagire?

Pubblicato sul Foglio del 6 ottobre

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